venerdì 20 novembre 2009

Lo Schiavo pt.2

Se sapessi di dover morire tra un mese non sarei sicuramente qua. Non starei sicuramente facendo quello che ora sto facendo. Però credo di avere tempo, avere molto tempo. Si può rimandare tutto, prima devo sistemarmi. Sistemare cosa? Cosa aspetto? Nulla.
Solo che ormai ho inciso a fondo dentro di me questo disegno, il disegno di qualcun altro, e sono pronto a portarlo a termine come se fosse mio. Magari mi costruirò qualche illusione, per credere che il mio futuro sia costellato di fantastici ideali. Come fanno tutti, del resto. E morirò, ricalcando questo disegno. Innaffiando quei fiori, dentro la mia cella, credendo che questa sia la libertà.

Lo Schiavo

Il vero schiavo è colui che vive il disegno di vita di qualcun altro credendo di essere egli stesso l'autore. Il suo compagno è colui che ha scoperto di non esserne l'autore, ma continua a viverlo come niente fosse. In quale delle due categorie ti identifichi?
Come? Ne manca una terza? Colui che è autore del disegno della propria vita e la vive fino in fondo? Oh ma non sei di sicuro tu, e nemmeno io. Quel qualcuno, se mai esistesse, non passerebbe il suo tempo davanti ad un computer, non ce l'avrebbe neanche. Quel qualcuno forse c'è, ma è lontano, lontanissimo, forse proprio accanto a te. Ma è un dimenticato. Forse è il barbone che ti chiede l'elemosina, forse se ne è proprio andato, e sta in Alaska, vive dentro un autobus e vive di ciò che caccia. Ecco, lui non è come noi. È stato dimenticato, ma forse vale molto, molto più dei fantasmi che incontriamo ogni giorno, di noi stessi, fantasmi che si credono ancora vivi.

Fine

«Vorrei essere l'uomo più sozzo e più vile, purché quello che ho fatto l'avessi voluto. Non subìto così. Non compiuto volendo fare altro. Che cosa è ancora Edipo, che cosa siamo tutti quanti, se fin la voglia più segreta del tuo sangue è già esistita prima ancora che nascessi e tutto quanto era già detto?» (Cesare Pavese)

Quello che ci ostiniamo a chiamare libertà non è nient'altro che un piccolo passatempo vissuto all'interno della nostra gabbia, quello che ci ostiniamo a chiamare desiderio non è altro che il disegno di qualcun altro su di noi appiccicato, che a forza di guardarlo abbiamo creduto fosse nostro.
Questa stretta gabbia è il nostro misero campo d'azione, oramai neanche più ci affacciamo alla piccola finestra per guardare il sole, occupati come siamo a contemplare le ombre che proietta nella nostra caverna. E questa casa, queste coperte, questo cibo, questa comodità sono la misura della catena che ci tiene qui legati. Le nostre tanto affascinanti idee non sono altro che un vaso di fiori, che coltiviamo dentro questa nostra gabbia, credendo che non ci sia nulla di più magnifico. La verità è che siamo tutti morti, cadaveri viventi, che chiamano libertà la loro gabbia, che credono di volere, di desiderare, quando tutto ciò che fanno è credere di essere fautori del proprio destino, delle proprie voglie. Perché se anche quella gabbia si aprisse non avremmo alcun desiderio di spingerci là fuori, perché forse la gabbia è sempre stata aperta, ma è tremendamente più comodo, tremendamente più conforme a tutto quanto ci è stato detto, rimanere dentro, sapere di avere un misero giaciglio. Credete che le vostre idee vi rendano liberi? Credete che le vostre speranze per il futuro vi aiuteranno a cambiare il mondo? Credete di poter anche solo liberare voi stessi? Impossibile. Perché non ne siete consapevoli. O, se ne siete, non volete liberarvi, proprio come me. Non importa quello che credete, quanto vi siate illusi finora. Perché ci siamo tutti dentro, fino in fondo, accettare il minimo compromesso significa già essere perduti. È questa la verità. Non mascheratevi dietro alle vostre illusioni, dietro ai vostri sorrisi ipocriti, affermando la vostra falsa libertà. Se siete qua è perché avete chiuso le vostre ali, avete accettato un sogno non vostro, e lo state vivendo fino in fondo, come se fosse il vostro più profondo desiderio. Se siete qua è perché vi siete rassegnati a essere quello che vi conveniva essere, perché oscurare una misera briciola di voi vi è parso un buon compromesso per ottenere tutto ciò. Ma quella misera briciola di voi è il vostro cuore, il vostro desiderio, ciò che vi rende umani, magici, divini, liberi. E non c'è più.

mercoledì 11 novembre 2009

L'argomento scettico del sogno

Consegna per il paper di storia della filosofia antica:
Come fai a sapere ora che stai scrivendo un paper e non stai sognando di scrivere un paper?

Non posso saperlo, ed è solo la paura di un immobilismo pragmatico a farmi agire. Sul piano conoscitivo, però, dal soloipsismo cartesiano (in cui, dopo aver demolito ogni certezza sulla realtà esterna, appare come unica verità la propria esistenza come sostanza pensante e dubitante) si aprono tre vie: la ricerca di un garante esterno della verità del mondo (indimostrabile), la ricerca di una percezione non mediata dalla mente (impossibile) e la soluzione moderna, secondo la quale reale è ciò che io definisco tale, lo spazio entro cui agisco, quello che io conosco o, perlomeno, credo di conoscere mediante le mie percezioni. Perché se è vero che penso è vero che penso ciò che penso, e ciò che penso è vero in quanto oggetto di pensiero. Idem per le percezioni, che altro non sono che pensieri (sensazioni pensate). Questa è la mia realtà, con cui mi rapporto. È quella Vera? Non lo so, e, probabilmente non lo saprò mai. Ma, fintantoché dovrò viverci, forse, il resto non ha importanza.

giovedì 15 ottobre 2009

L'uomo in politica

Nessuno, si può dire, fa qualcosa di sano nelle cose della politica, e non c'è alleato insieme con il quale si possa andare al soccorso della giustizia salvando anche se stessi; piuttosto, è come se un uomo precipitato fra le belve non volesse collaborare all'ingiustizia né potesse da solo opporsi a tutte le fiere, e quindi morisse prima di aver giovato alla città o agli amici, inutile a sé e agli altri. (Platone, Repubblica, VI, 496d)

giovedì 1 ottobre 2009

Trattato di Lisbona

Prendetevi una mezz'oretta e leggete questo: Trattato di Lisbona

Ne avevate mai sentito parlare? Vi ha per caso avvisato un qualsiasi telegiornale? O Travaglio? O la Gabanelli?
Questo è un fatto serio, molto serio, che potrebbe ridisegnare la vita di noi tutti. Mi fermo qua, sta scritto tutto nel link, ad ognuno le sue considerazioni.
Domani in Irlanda ci sarà il referendum che deciderà se questo Trattato potrà definitivamente entrare in vigore, oppure no (e forse essere rimandato solo di qualche mese...).
Buona lettura

Perché?

Cosa ha condotto l'uomo fino a questa situazione? Perché, nonostante le 'belle idee' l'uomo sceglie la comodità, il denaro, l'avere? Eppure ha conosciuto, anche se in parte, un altro possibile modo, un altro possibile mondo. I bisogni che sente sono sì indotti, ma chi altro se non l'uomo stesso ha creato questa catena? Il diavolo tentatore è pur sempre una creazione umana. Avendo creato da sé il bene ed il male, perché ha scelto il male?
Herbert Marcuse, ne “La fine dell'Utopia”, afferma “Se escludo dai miei argomenti qualsiasi ragionamento umanitario, su quale base posso poi oppormi attivamente al sistema tardo-capitalistico?[...] Che cosa c'è di tanto orribile in un sistema che continua a espandere la ricchezza sociale in misura tale da assicurare a strati di popolazione un tempo condannati alla povertà e alla miseria il possesso dell'automobile, della televisione e della villetta familiare?”.
L'uomo ha quindi escluso, allontanato da sé ogni proposito umanitario? Come dipingere allora le varie azioni di volontariato, beneficenza?
Da una parte rientrano anch'esse nella catena capitalistica che fa di essi stessi un business, o se vogliamo un'azione volta a soffocare quegli ultimi echi umanitari, non facendoci più sentire in colpa, fieramente celati dietro la nostra maschera di 'brave persone'. Dall'altra sono voci ancora vive di umanità, ma che vengono ogni giorno di più soffocate dall'attuale sistema. E, soffocando sempre più queste voci, non ci appare sempre più vero come l'uomo possa essere, tra gli altri uomini, solo contro tutti, nemico contro tutti gli altri, non sentendo più per l'altro nessun legame empatico?
E cos'ha di tanto orribile questo sistema? L'analisi di Marcuse, visto il periodo in cui si è svolta (1967), pecca sicuramente di un'importante riflessione. Questo sistema non può durare eternamente, non tanto per le sue pecche umanitarie, quanto per la sua insostenibilità ecologica, argomento venuto fuori negli ultimi anni con molta più insistenza.
Tuttavia un sistema come il nostro, allo scopo di mantenersi nel tempo, potrebbe anche scendere a compromessi (e in parte lo sta già facendo) e tentare di risolvere anche questo problema.
Oltre ciò allora, è imprescindibile lo sfruttamento del terzo mondo, degli strati sociali meno abbienti e con meno opportunità, della forza-lavoro? Non potrebbe questo sistema ampliare ancora la sua ricchezza fino ad estenderla a tutti? O è totalmente contro i suoi princìpi? L'ideologia liberale non vuole in fondo garantire a chiunque massima libertà a chiunque? Che si traduce in libertà economica, ma che ora non può essere garantita a causa delle diseguaglianze sociali.
Karl Popper reputa impossibile coniugare in una forma di stato due principi fondamentali come uguaglianza e libertà.
Ma, se il sogno comunista (che non sia un azzardo chiamarlo 'comunista', viste le molteplici sfumature assunte ormai dal termine, ma voglio riferirmi ad un comunismo come quello del primo Marx, quello più umanitario e filosofico) vede nascere la libertà dall'uguaglianza, ossia vede come, in uno stato dove viene dato a ciascuno secondo i suoi bisogni, l'uomo possa finalmente sentirsi libero e veramente uomo, potendo compiere il proprio lavoro, vivere la propria vita senza essere incalzato quotidianamente e stremato dalle necessità, dal bisogno, soffocato da una società opprimente che lo costringe a lavorare per ottenere come unica ricompensa la sopravvivenza. Ecco, se il sogno comunista deriva la libertà dall'uguaglianza, non può il sogno liberale veder nascere l'uguaglianza dalla libertà? Un mondo in cui tutti avessero le stesse libertà, privo di un controllo statale e centralizzato, ove tutti riuscissero a conseguire il proprio scopo, a realizzarsi nel proprio lavoro e nella propria vita, grazie al proprio impegno e coraggio (idea prettamente liberale), non si avvicina forse all'ideale anarchico/comunista? Che l'empatia tra gli uomini possa nuovamente sorgere quando essi si vedano finalmente liberi, e riescano a sentirsi realizzati in una società che non li ostacola?

lunedì 7 settembre 2009

Guarire dalla miopia

Buonasera!
Era il lontano 1994 quando un Fabio ancora bambino, che aveva appena imparato a leggere, alla richiesta dei genitori "dai! leggi quello che c'è scritto in tv!", rispondeva: "ma...non vedo bene...".
Ecco, da quel lontano 1994 Fabio porta gli occhiali, una volta all'anno va dall'oculista e scopre che la sua vista è calata di qualche grado in più rispetto all'anno prima, che non potrà mai tornargli e dovrà prendere occhiali con lenti sempre più potenti. Fabio però qualche volta si è anche chiesto, come probabilmente molti altri: ma perché deve andare sempre peggio?
È proprio questo il punto: peggiorerà sempre?
Sullo scaffale di una libreria un libro mi ha incuriosito, "Come sono guarito dalla miopia", di David de Angelis. Egli parla di questo metodo innovativo, il Power Vision System, che consiste in esercizi mirati per i muscoli di accomodazione e la messa a fuoco, con lo scopo di riacquistare lo stato di emmetropia, cioè la vista completa, facendo regredire la miopia (cosa che tutti gli oculisti a cui mi sono rivolto in tanti anni hanno giudicato impossibile).
Il principio è semplice: l'occhio diventa miope a causa di particolari condizioni, in particolare l'eccessivo lavoro a corte distanze. Questo causa un insolito adattamento muscolare dei muscoli ciliari che regolano l'accomodazione e la messa a fuoco, che porta ad una lieve miopia, che può potenzialmente continuare a peggiorare. Indossando le prime lenti, l'occhio, anziché cercare di correggere l'errata situazione muscolare, trova un nuovo equilibrio: si ha una vista perfetta, ma l'occhio rimane nella conformazione non ottimale. Le cause che hanno portato all'iniziale degrado tornano, sommate alla già presente debolezza dell'occhio, e la miopia non può fare altro che peggiorare.
Secondo David de Angelis la soluzione è quella di lavorare sui muscoli che regolano l'accomodazione e la messa a fuoco, prima con esercizi di stretching, per potenziarli e renderli più forti ed elastici, poi proprio sulla messa a fuoco, usando lenti di gradazione opposta a quella normalmente prescritta, ovvero: provocare uno stato di defocus (vedere peggio) per forzare l'occhio ad adattarsi a quella situazione. L'adattamento alle condizioni esterne è la tipica risposta di qualsiasi organo di un essere vivente, ed è tra l'altro ciò che è avvenuto con l'iniziale miopia.
Il libro è molto interessante, c'è anche un forum (link sotto) di persone che trattano questo metodo e descrivono i loro miglioramenti: addirittura casi di persone che hanno recuperato oltre 5 diottrie in pochi anni.
La cosa mi ha folgorato, e sono ansioso di sperimentare, ho iniziato gli esercizi solo oggi, dopo aver finito il libro ed essermi documentato un po' in giro. Lo scetticismo rimane, ma sono piuttosto confortato, soprattutto dalla lettura del forum e di moltissimi casi positivi (alcuni hanno persino pubblicato la scansione delle prescrizioni mediche dell'oculista per dimostrare i miglioramenti, e questo mi sembra una dimostrazione sufficiente).
A chi interessasse la cosa:
Il sito dell'autore
Il forum di cui parlavo

sabato 25 luglio 2009

Addio liceo

Forse con un po' di ritardo rifletto su quella che è la mia definitiva e ufficiale dipartita dal liceo. Iniziava a stancarmi, e a starmi decisamente stretto. Non che abbia le pretese di voler sconfinare chissà dove, solo quelle cose sono decisamente troppo strette. La scuola scelta è stata indubbiamente un errore. Ho senz'altro ereditato parecchio da questo percorso, e non rinnego né il modo di ragionare né il metodo che questi anni mi hanno insegnato. Solo non sopporto proprio il sistema scolastico. Non sopporto tutti quei professori che non si sentono pedagoghi, che non vogliono aprire delle porte, battere il sentiero di un percorso e seminare qualcosa di utile e prolifico, ma solo snocciolare le solite quattro cose e chiudersi immediatamente dopo. Mi hanno stancato tutti quelli che non vogliono insegnarti la loro passione per qualcosa, forse perché mai l'hanno avuta e mai l'avranno, ma ti insegnano una materia, inutile come tante altre. Tutti quelli per cui sono stato il numero 9. Non Fabio, Lorenzi, quello che parla spesso e trova spesso da ridire, non quello che ogni tanto prova a metterci qualcosa di suo, ma unicamente quello che sta dopo il numero 8 e prima del numero 10. Quello che prende x nel compito. E mi sono anche stancato di tutti quelli che stavano dalla stessa parte mia della classe, non dietro una cattedra, e non hanno creduto minimamente di poter imparare qualcosa, di potersi appassionare. Quelli che “la scuola proprio fa schifo, fortuna che adesso c'è l'estate che mi sballo”, quelli che “ma tu studi? Che sfigato! Secchione!”. Quelli che sicuramente hanno capito ben poco di quel posto che hanno frequentato per almeno 13 anni. Eh sì, non ho un ricordo eccezionale della scuola, mi tornano sempre in mente certi aspetti, senz'altro negativi, che hanno malamente condito il mio vissuto scolastico. Di fianco a questi ci stanno altri esempi, opposti, di gente che si è impegnata per dare qualcosa a noi, per accendere un po' di sana curiositas, per stimolare a guardarsi attorno, ad appassionarsi a qualcosa, fosse la fisica o la filosofia. Ed è davanti a questi esempi che si è formato sempre più forte il desiderio in me di...trovarmi lì, da quella parte, davanti ad una quarantina di occhi puntati, un po' verso di me, un po' altrove, e aprirmi, insegnare la mia passione per qualcosa, raccontare il mio sogno attraverso una materia, un discorso, un concetto. Non per far passare quel concetto o quel discorso, poco conta. Passerà, come tutte le altre cose. Ma per far vedere che dietro quel concetto c'è qualcosa, che si è mossa per raggiungerlo, che si anima dietro di lui e, instancabile, vuole trasmettere quanto più di sé stessa ad altri. Non so se possa essere davvero il mio destino. Però davanti a certi esempi ho sentito veramente una grande ammirazione, e penso che sicuramente mi abbiano lasciato qualcosa. Che non è una nozione o un concetto, che probabilmente ho anzi già dimenticato, ma è la passione per qualcosa.
Nota a margine per l'esame di stato. Certamente deluso per quello che è venuto generalmente fuori, e sicuro che la colpa non è solo nostra. Ma anche di chi doveva cercare di tirare fuori il meglio di noi, e non l'ha sicuramente fatto. E ho qualche dubbio anche sul fatto che ci abbiano realmente provato. Ok, è solo uno stupido numero, e noi non siamo numeri. Mi rammarica il fatto che quei numeri che non siamo in molti casi non rispecchino minimamente l'impegno di alcuni di noi, e dimostrino di aver tentato veramente poco di conoscerci.

Da parte mia però non mi lamento affatto :-P

lunedì 6 luglio 2009

Tesina: Epigenetica e rivincita di Lamarck, contro il determinismo genetico

dopo un lungo silenzio, torno ad essere attivo! Finiti gli esami, i punteggi si sapranno a breve, ma conta relativamente, come dico sempre "son solo numeri, e io non sono un numero" :-P. Pubblico qui la mia tesina, per la quale ho impiegato parecchie ore di ricerca e studio, oltre che condensazione di tutto quel materiale in un elaborato piuttosto sintetico. Non che abbia la pretesa di aver scritto chissà cosa, solo mi sono divertito, mi ha appassionato e mi ha anche insegnato qualcosa. Buona lettura!

Epigenetica e rivincita di Lamarck, contro il determinismo genetico

Premessa:
i punti in seguito esposti sono teorie, considerazioni tratte da alcuni scienziati e da una particolare corrente scientifica che prende il nome di epigenetica.

Opposizione tra Materialismo e Spiritualismo
Democrito
visione materialista e meccanicista. La materia è tutto ciò che esiste, la vita è data dal movimento di atomi.
Il controllo del corpo è interno al corpo stesso.

Platone
visione dualistica, respinge il determinismo. Oltre la materia vi è l'anima, un'energia pura, perfetta e immutabile.
Il controllo del corpo proviene da qualcosa di esterno al corpo.

Cartesio
formula un dualismo assoluto tra corpo e mente, separando definitivamente lo spirito dalla materia.
Il corpo è una macchina e viene studiato come tale, indipendentemente dalla mente.

Newton
fa propria una visione materialista e meccanicista dell'universo, trascurando lo studio della mente e dell'energia.
Idea alla base della fisica → Universo visto come un grande meccanismo, composto unicamente da materia

scopo della scienza moderna è “ottenere una conoscenza che permetta di dominare e controllare la natura.” (Francis Bacon)

Darwin
con lui la teoria dell'evoluzione, già anticipata dagli atomisti greci, trova piena espressione.
Nell'evoluzione il controllo è dato dai caratteri ereditari, trasmessi dal genitore alla prole. Le modifiche evolutive sono date da
- mutazioni casuali
- selezione naturale

Weismann
anticipa il determinismo genetico. Compie una suddivisione tra cellule germinali e somatiche. Le prime sono quelle che danno vita ad altri individui, le seconde quelle che formano la struttura corporea. Le germinali formano quelle somatiche, ma queste ultime non possono minimamente influenzare le germinali, che si replicano unicamente tra loro.
.
Watson e Crick
Scoprono il dna e la sua struttura. Ciò conferma e dà una spiegazione materiale alla teoria darwiniana, è il mezzo attraverso cui vengono trasmesse le informazioni genetiche.
Crick formula inoltre il dogma centrale della biologia, il quale afferma il determinismo genetico e il primato del dna.

dna→rna→proteine (dogma centrale)

questo pone le basi per il progetto Genoma umano, e la convinzione che i geni controllino la biologia. Scoprendo e mappando l'intero Genoma si dovrebbe poter controllare lo sviluppo dell'organismo umano, eliminando caratteri dannosi e potenziando quelli favorevoli.
Il nucleo, contenente il dna, è il cervello della cellula.

Tutte queste scoperte, secondo il biologo Bruce Lipton, hanno portato alla formulazione di 3 assunti fondamentali.

1)I processi biologici sono determinati dalla fisica newtoniana
2)Il Genotipo determina il Fenotipo, cioè quanto è scritto nel codice genetico è ciò che controlla e determina lo sviluppo dell'organismo.
3)L'evoluzione segue i principi Darwiniani


1) I processi biologici sono determinati dalla fisica newtoniana

Se la fisica newtoniana afferma Universo=Materia, la fisica moderna, facendo propria la formula di Einstein E=mc², afferma che Universo=Energia. L'universo è fatto di energia, la stessa materia è energia.

L'atomo, pertanto, non ha una vera e propria struttura statica, ma è un vortice di energia.

L'atomo interagisce con l'esterno non per la sua struttura fisica, ma per il campo elettromagnetico che emette.

Tuttavia, la medicina interviene per lo più agendo sulla materia (chirurgia, farmaci).
Ma l'energia può modificare la materia e la sua influenza elettromagnetica.

Un esempio è la litotrissia extracorporea: bombardando i calcoli con delle precise frequenze si può generare una risonanza negli atomi che li compongono. Questi si disgregano in minutissimi frammenti e possono venire facilmente asportati.
In questo procedimento viene cambiata la configurazione della materia solo con l'energia.

2) Il Genotipo controlla il fenotipo

→Sottovaluta l'importanza dell'ambiente.

Darwin stesso scrisse, in una lettera a Moritz Wagner: “A mio parere, il più grande errore che ho commesso è stato non aver dato sufficiente peso all'azione diretta dell'ambiente: il nutrimento, il clima, e così via, indipendentemente dalla selezione naturale...Quanto scrissi l'Origine, e per molti anni a seguire, non trovai che scarsissime prove dell'azione diretta dell'ambiente, ora invece sono numerose.”[1]

L'ambiente non viene considerato nel dogma centrale, ed è generalmente trascurato dalla biologia, che attribuisce lo sviluppo dell'organismo prevalentemente al suo materiale genetico.

→Questo ci introduce alle scoperte dell'epigenetica, la scienza che studia la regolazione dei geni e il controllo del patrimonio genetico.

Lo scienziato Nijhout afferma “Quando viene richiesta l'attività di un gene, è un segnale proveniente dall'esterno, e non una proprietà derivante dal gene stesso, che attiva l'espressione di quel gene.”[2]

Il primato dell'ambiente segue il seguente schema:
segnale ambientale
↑↓
proteine regolatrici (istoni)
↑↓
dna
↑↓
rna
↑↓
proteine

La trascrizione del dna in proteine è regolata da specifiche proteine regolatrici, dette istoni. Questi avvolgono il dna e controllano l'attivazione e la disattivazione dei geni, e ne regolano la trascrizione.

Alcune ricerche affermano che meno del 2% del codice
genetico è codificante, il restante 98% non viene mai
utilizzato, rimane ad uno stato potenziale.

Ciò significa che quanto scritto nel codice genetico non è necessariamente tradotto in proteine.

“Il dna non è altro che un nastro su cui sono registrate le informazioni, inutile senza un apparecchio che consenta di leggerlo. L'epigenetica è il lettore di nastri” (Bryan Turner) [3]

perché? ↓
Gli istoni avvolgono il dna, rendendolo illeggibile all'esterno. Attraverso specifici procedimenti (acetilazione, metilazione) gli istoni marcano i geni, stabilendo la loro attivazione e regolandone la traduzione in proteine.

Se io possiedo il gene di una specifica malattia, questo non significa necessariamente che
questa si manifesterà, ma che lo farà solo se verrà richiesta la sua attivazione. Potrebbe non
manifestarsi mai.

Questo ci spiega che, forse, più che capire quali siano i geni di una determinata malattia, occorre capire perché questi vengano attivati.

Oppure io posso possedere sia il gene che determina un tumore, sia uno che determina la sua soppressione.
Errori nella metilazione (i quali hanno cause esterne, dovute allo stile di vita inadeguato, a sostanze assunte e squilibri psicofisici) possono comportare la disattivazione del secondo gene e la manifestazione del tumore.

Secondo Lipton e altri studiosi, solamente nel 5% dei casi di malati di cancro e di disfunzioni cardiovascolari, la malattia è attribuile a fattori ereditari. [4]
La gran parte dei tumori maligni è dovuta ad alterazioni epigenetiche indotte dall'ambiente, e non da geni difettosi. [5]

In sostanza, per l'epigenetica: l'interpretazione del dna è tanto importante quanto il suo contenuto.

In una pubblicazione del 1995, le due scienziate Jablonka e Lamb affermano: “La recente biologia molecolare ha dimostrato che il genoma è molto più duttile e reattivo di quanto si pensasse in precedenza. Ha inoltre dimostrato che le informazioni si possono trasmettere alla discendenza in altri modi oltre che tramite la sequenza base del dna.” [6]


La metilazione e l'acetilazione di fatto modificano il dna nel suo complesso.
E queste modifiche sono trasmissibili alla prole. [7]

Questo ci conduce al terzo punto.

3) L'evoluzione segue i principi darwiniani

Darwin stesso aveva detto di aver trascurato l'importanza dell'ambiente.
Le recenti scoperte dell'epigenetica si avvicinano maggiormente alle tesi di Jean-Baptiste de Lamarck, biologo francese che elaborò una teoria dell'evoluzione ben 50 anni prima di Darwin.

La teoria di Lamarck si discosta da quella darwiniana per due aspetti fondamentali

1.Collaborazione e comunità anziché lotta per la sopravvivenza. Il corpo umano ne sarebbe il migliore esempio: una comunità di 50mila miliardi di cellule che cooperano tra loro.
2.Mutazioni: non sono mutazioni casuali, ma mutazioni apprese dall'ambiente e trasmesse alla prole.

L'evoluzione è adattarsi all'ambiente, a differenza di quello che fa ora l'uomo, cioè modificare l'ambiente.

I cambiamenti sono influenzati dall'ambiente, che detta alle proteine come interpretare il dna di base.
Questi cambiamenti sono trasmissibili: i gruppi metili e acetili aggiunti durante il controllo epigenetico vengono conservati nelle cellule riproduttive.

Nelle piante questo meccanismo è molto più evidente che nell'uomo: esse non sono dotate di sistema nervoso e la loro memoria consiste nel cambiamento della molecola di dna in base a fattori esterni che influenzano le proteine. Questi cambiamenti sono trasmessi alla prole, che ha così una informazione di partenza sull'ambiente esterno. A differenza delle piante, gli animali e in particolare l'uomo, hanno la capacità di apprendere e insegnare ai propri figli, facoltà che facilità enormemente l'adeguamento all'ambiente esterno.




Conclusione

Abbiamo prima detto che non è il dna a controllare la biologia dell'organismo, ma che questo è controllato da proteine che rispondono a segnali ambientali.

Il controllo non è quindi quello democriteo (dall'interno, il dna, all'esterno), la cellula è comandata dall'esterno.
Il dna fa solo da stampo per le proteine, è come un nastro.

Ma allora chi controlla la cellula? Dove sta l'identità della cellula, e quindi della persona, se non è nel suo dna?
Il controllo è dato dall'esterno, dall'ambiente.
Se una cellula viene enucleata (cioè le viene rimosso il nucleo, contenente il dna) essa può continuare a vivere e svolgere tutte le sue funzioni principali, eccetto la trascrizione di nuove proteine e la riproduzione. Questa cellula continuerà a fare riferimento allo stesso organismo.
Dunque, non è l'informazione genetica a contraddistinguere cellule di uno stesso organismo.
↓ ma
Sono delle specifiche proteine di membrana, gli autorecettori (Leucociti Antigeni Umani, HLA).
Se questi venissero espiantati, si otterrebbe una cellula generica, che può essere impiantata in altri organismi senza venire rigettata. E, impiantando questi recettori in una cellula, questa inizierà a fare riferimento all'organismo da cui provengono.

Queste proteine sono però dei recettori, e, come tali, fanno riferimento a qualcosa di esterno.

L'identità è qualcosa di esterno alla cellula, la controlla da fuori, secondo la visione dualistica.

Facendo un esempio, la cellula è simile ad un televisore, e gli autorecettori sono la sua antenna, sintonizzata sulla specifica frequenza che corrisponde ad un canale (identità specifica) tra tutti quelli presenti (l'ambiente).
Quanto il televisore si spegne (la cellula muore), il canale è ancora presente nell'ambiente.

Sono stati riscontrati casi di persone che, avendo ricevuto un organo, ereditino alcune caratteristiche della personalità del donatore, addirittura alcuni ricordi (celebre il caso di una ragazza che è stata in grado di riconoscere l'assassinio del donatore). [8]
Come sosteneva Cartesio, il piano della mente è separato da quello del corpo, della
materia estesa. Ricordi e sensazioni non sono materiali.

Il corpo e il suo sviluppo non dipendono dall'identità della persona, ma dalle particolari condizioni ambientali in cui esso cresce. Colore della pelle, malattie, non fanno parte dell'identità della persona.

L'identità di tutti è nell'ambiente, e ciascun organismo fa riferimento solo ad una specifica parte di essa, ad una specifica identità.

Ma, come la luce bianca è data dalla somma di tutte le singole frequenze elettromagnetiche, l'identità comune, l'ambiente, l'unione di tutte queste è data dalla somme di tutte le identità, di noi tutti. E questa può forse essere paragonata alla luce bianca, all'energia, di cui è composto il nostro universo, di cui noi facciamo parte, e che è tutti noi.


Riferimenti:

[1] Darwin F 1888, lettera del 1876 a Moritz Wagner
[2] H Frederik Nijhout, 1990, Duke University
[3] Bryan Turner, da
[4] Willett, 2002
[5] Kling, 2003; Jones, 2001; Seppa, 2000; Baylin, 1997
[6] Eva Jablonka, Marion Lamb, Epigenetic Inheritance and evolution – the Lamarckian Dimension, 1995
[7] Reik e Walter 2001, Surani 2001
[8] Claire Sylvia & William Novak, A Change of heart, 1997; Paul Pearsall, The Heart's code: tapping the wisdom and power of our heart energy, 1998

Bibliografia:

Bruce Lipton, la Biologia delle Credenze, Macroedizioni 2006
Bruce Lipton, la Mente è più potente dei Geni, (Video) su

domenica 24 maggio 2009

In pieno periodo studio prematurità, ci sono ancora, anche se la scuola mi sta assorbendo parecchio :-P
Che non lo facciano apposta a massacrarci di cose da studiare e da fare, per non lasciarci tanto tempo per pensare ad altro e, magari, anche un po' a noi stessi.

mercoledì 22 aprile 2009

Qualcuno era comunista

“Qualcuno era comunista perché...la rivoluzione oggi no. Domani forse, ma dopodomani sicuramente no.”
(Qualcuno era comunista – Giorgio Gaber)

Bizzarri personaggi alzano il pugno, ti guardano sorridenti, parlano di potere al popolo, uguaglianza, fratellanza. Sono amici dei poveri, loro. Talmente tanto amici che...li guardano dall'alto al basso dalla loro posizione da borghesi. Ma si riconoscono proletari. Vorrebbero un mondo dove tutti hanno le stesse possibilità. Ma ne hanno molte più di possibilità, loro. E ogni singola cosa che hanno in più deriva dallo sfruttamento di quelli che di cose ne hanno molte meno, molte meno proprio per darle a loro. Però sono amici. Forse solo noi ricchi possiamo essere amici dei poveri, loro non hanno più tanto da darci. La rivoluzione oggi no. No, no. Non siamo pronti. Non sono pronti, gli altri. Perché io lo sarei. Guardatemi: ho il pugno alzato, faccio discorsi comunisti, sorrido a tutti, critico il sistema, ho letto tutto Marx...Domani forse. Perché...sì dai domani si farà. Ma non dipende da me, io sono a posto. Sono gli altri a non essere pronti. Sono talmente a posto che se tutti fossero come me vivremmo in un mondo perfetto, perché io voglio bene a tutti e non tolgo nulla a nessuno. Quasi. Perché adesso sono un po' costretto. Ma è solo perché sono costretto eh, io sono rivoluzionario dentro. Come? Non sono credibile? Perché? Sembro forse borghese? Beh sì lo ammetto, forse sto un po' sopra alla media socioeconomica. Diciamo che ho più possibilità della media. Ma poche eh. In fondo posso considerarmi povero. Perché è dai poveri che parte la rivoluzione, non dai ricchi. I ricchi...sono loro che mangiano veramente i bambini. Loro che sfruttano il terzo mondo. No, le mie scarpe non derivano dallo sfruttamento di qualche bambino nel terzo mondo. Le mie...non è un bambino. È un giovane. È molto giovane, ma non è un bambino. Ma poi sono costretto eh, quali altre scarpe potrei prendere? Sono così comode, belle...però a quel bamb..giovane ci penso, tutte le sere. Penso che gli voglio bene, perché mi ha fatto le scarpe. Io comprandole gli ho dato lavoro. Magari lui di quei soldi se n'è presi ben pochi, ma sempre meglio di niente, e poi io lo penso, gli voglio bene. Non solo a lui. Io mando anche l'euro per la scuola in Uganda. Così quei bambini prendono coscienza di classe e fanno la rivoluzione. Come me. Io ho preso coscienza di classe. Infatti la rivoluzione non la faccio, sto troppo bene così. Certo, uguaglianza, Dio ci ha creati tutti uguali. Ma alcuni un po' più ricchi e altri un po' più poveri. Però ci vogliamo tutti un gran bene.

martedì 21 aprile 2009

il seduttore

Io non voglio compiere una scelta. Anzi. Io voglio scegliere tutto. Se scegliessi qualcosa, se mi fermassi...tutto si quieterebbe, anche ribadendo la stessa scelta ogni volta. Quando ti immergi per il primo attimo in una scelta sei nell'estasi più completa, raggiungi l'amplesso, il culmine dell'essenza stessa del tuo, del suo essere. Ma come può 'durare'? Se anche 'durasse' si perderebbe irrimediabilmente...l'abitudine l'ammazzerebbe. Percorsa cento volte la strada più bella appare niente più di tutte le altre. Non è una questione della strada, fa tutto parte di come vediamo la strada. E, per ogni cosa, dopo un po' l'uomo sostituisce a 'ciò che vede', qualcos'altro, 'ciò che sa che dovrebbe vedere'. La cosa si annebbia, si oscura, sparisce. La cosa più magnifica diventa bella, carina, normale, noiosa, pedante. Come si può non essere spinti verso qualcos'altro? Perché rimanere legati a qualcosa di vecchio, stantio?
“Il loro amore moriva
come quello di tutti
come una cosa normale e ricorrente
perché morire e far morire
è un'antica usanza
che suole aver la gente.”
(Il dilemma – Giorgio Gaber)
il loro amore moriva...una volta raggiunto l'apice è inevitabile il, seppur lento, declino. Ma ci si aggrappa a qualcosa di vecchio, a “parole che ognuno sa a memoria”, senza sapere se neanche più ci si crede veramente...
Il seduttore non si focalizza su un oggetto solo. La contemplazione di un oggetto è destinata a vanificare ogni tenace sforzo di bellezza, col tempo. Il tempo. Bisognerebbe eliminarlo, il tempo. Frantumarlo in ogni singolo istante, spezzare la catena passato-presente-futuro e creare un unico, grande, eterno presente. In questo presente riverberano gli antichi spettri dei ricordi e le aspettative future, ma sono come annebbiate in una dimensione che le vanifica, in quanto lo sguardo è rivolto all'eternità del presente. Un presente nuovo, magico, diverso dopo ogni istante, che muore, vive e rinasce a sé in ogni attimo. Fermarsi...sarebbe rimanere fermi alla morte, non compiere una nuova rinascita. L'unico riferimento è il mio rapportarmi al tutto, l'unico riferimento è il tutto. Carpe diem.
Così tutto muore, tutto rinasce. Sì, il loro amore moriva, ogni giorno. E ogni giorno rinasceva. E...poi?
(buio)

domenica 19 aprile 2009

Alla fine

È incredibile come alla fine di ogni discorso, alla fine di ogni canzone, ogni vita, ogni cosa...si depositi il seme della speranza. Nel corso della vita. Quanti si sono spostati dal nichilismo più totale ad una sorta di teologismo mascherato? Quanti hanno distrutto tutto per poi rinascere, sia pur come un piccolo punto luminoso, una piccola ginestra nel deserto dell'esistenza?
Tanti.
La domanda che molti si pongono è “e se non fosse tutto qui?”. La domanda che altri si pongono è “e se tutto quello che c'è oltre fosse solo una insulsa creazione mentale per giustificare la nostra paura dell'ignoto? O, ancor meglio, del nulla?”
Il nulla più totale, la morte. Abbiamo paura. Proiettiamo quello che è un nostro bisogno nell'immagine distorta di quella che è una realtà che noi stessi contribuiamo a creare, e vediamo speranzosi un punto luminoso in quella che non è altro che una semplice immagine riflessa. Ma allora la luce c'è! Stolto, se credi di vederla. 'Eppure tu esisti, che significa?' Credi forse che ci sia un significato nelle cose? Significato è qualcosa che vi attribuisci tu, a posteriori, non qualcosa di insito nella realtà stessa. L'idea di fine...un'altra categoria dell'intelletto umano applicata alla realtà. La verità è che nessuna di queste esiste nella realtà. La verità è che neanche l'esistenza è qualcosa di insito nella realtà. Neppure la realtà è reale. Sono tutte costruzioni che non hanno niente a che vedere con la vera 'essenza' (un altro termine per definire qualcosa di indefinibile...)...
Come porsi dinanzi a questo? Rifiuto totale di ogni categoria? No, è totalmente impossibile, noi siamo queste categorie, la realtà è quella che ci creiamo, con tutte le cose che vi attribuiamo. Accettazione incondizionata? Neppure, un'immagine così distorta inficia ostinatamente qualsiasi ricerca un minimo approfondita e disincantata delle cose. E se l'amore fosse solo quell'elegante cornice che abbiamo voluto dipingere attorno alla procreazione? Se, se, se...e se dal rifiuto di ogni certezza potesse nascere qualcosa? Dal soloipsismo più totale sorgesse qualcosa? Non sarebbe la solita insulsa creazione mentale? Una delle tante illusioni? Se l'essenza fosse data proprio da queste illusioni? Illusioni...appunto. Niente di reale, ma abbiamo forse bisogno della realtà? Quando una dimensione onirica soddisferebbe assai più facilmente i nostri bisogni...che senso ha scontrarsi col reale? Che senso ha porsi delle domande? Nessuno. Però lo faccio, non si sa mai che qualcuno risponda.

mercoledì 1 aprile 2009

Dialogo sulla scienza

scritto da me e il gruppo 'filo' (io, tommaso, chiara, beatrice, elena 'cosci', filippo) per un concorso di filosofia, sul tema della scienza. Riprende in parte un mio vecchio scritto (non poi così vecchio :-P)

μετα τασ εδωδασ

meta tas edodas (dopo pranzo)

Di questo logos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza.
Eraclito di Efeso

Senza sensibilità nessun oggetto ci sarebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto sarebbe pensato.
I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche.
Immanuel Kant

Non esistono fatti, ma solo interpretazioni.
Friederich Nietzsche

Ci sono cose che l'intelligenza è capace di cercare, ma che, da sola, non troverà mai.
Henry Bergson


Eutidemo, fino ad allora silenzioso, prese la parola. “Tu Eracleo hai affermato che la scienza non ha valore conoscitivo. Ma se la conoscenza non si esaurisce a ciò di cui abbiamo un riscontro assolutamente certo, come la si può allora definire? Se dovessimo fermarci dinanzi a questo primo ostacolo, saremmo costretti a farlo immediatamente, e il nostro processo conoscitivo non avrebbe neppure inizio. Inoltre, certe cose che la scienza assume possono comunque ritenersi valide, non solo dal punto di vista pratico.”
“Bene! Questa è senz'altro una critica costruttiva, e un ottimo spunto di riflessione. Come hai ben notato, io ho detto che la scienza non ha valore conoscitivo, ma non ho definito cosa significhi conoscenza, né perché l'uomo la persegua, né quali possano essere i suoi scopi.”
“È così.”
“Dunque. Etimologicamente la parola 'conoscenza' significa 'apprendere con l'intelletto', creare un sistema di cognizioni acquisite con lo studio e la meditazione, cominciare ad apprendere, a fare proprie delle nozioni, a farsi un'idea del mondo. Conoscere è apprendere, imparare. Tutte queste definizioni, però, non esauriscono a parer mio una così ampia facoltà, un così grandioso bisogno dell'uomo. Perché di bisogno si tratta, è un'esigenza dell'uomo, quella a conoscere, che lo richiama ad espandersi, a migliorarsi, a porsi in una condizione di maggiore consapevolezza, a realizzarsi come persona, a tendere verso un qualcosa che, sebbene appaia incomprensibile, vuole essere raggiunto, compreso, vissuto.
Voglio ora cominciare una digressione, per descrivere da dove possa derivare questo bisogno, da dove provenga la conoscenza, perché forse questo è l'unico modo per risalire al suo significato.”
“Ti ascoltiamo.”
“Partiamo dal principio, dal principio dell'uomo. Durante la gravidanza, l'uomo è tutt'uno con la madre. Il feto non conosce nulla dell'esterno, trova in sé tutto quanto lo possa soddisfare. Esso è solo soggetto in questo momento. Soggetto non ancora affermatosi propriamente come tale, in quanto non conosce null'altro all'infuori di sé: non contrapposto a null'altro, si considera un 'tutto'. Al momento della nascita, però, questa supremazia è destinata a crollare. Uscendo dal ventre della madre, il neonato viene immediatamente a contatto con l'esterno, scopre di non essere più solo, vede condizioni esterne differenti da quelle proprie al suo interno, condizioni che hanno una forte influenza, un forte impatto su di lui. La reazione è una sola: il pianto. Questa scoperta lo porta al dispiacere, alla disperazione. È tra le braccia della madre che ritrova una parte di sé, che colma in parte il suo dispiacere. Il neonato si è visto come soggetto, ma non più come 'tutto', perché ha contrapposto a sé un oggetto, che lo ha spiacevolmente influenzato.
Venendo a contatto con questi oggetti, l'uomo nota come alcuni di essi riescano a procurargli piacere: il nutrimento, il calore della madre, mentre altri gli provochino dispiacere: la fame, il freddo. Il bambino ha instaurato dei rapporti con oggetti esterni, e questa è la sua primaria conoscenza: lo studio dello svolgersi di questi rapporti. In base all'effetto che hanno su di lui, cerca di procurare a sé stesso il piacere e di allontanare il dispiacere. La sua conoscenza si esplica quindi nel comprendere le sue connessioni con il mondo esterno e cercare di trarne beneficio. Questa conoscenza la possiamo definire come 'pratica'. Il bambino è dedito allo studio delle sue relazioni con gli oggetti, l'influenza che questi hanno su di lui, e come poter modificare il rapporto per ottenere un riscontro a lui gradito. Il metodo usato per questa conoscenza è prevalentemente empirico: basato sull'esperienza, se una cosa riesce sgradita non verrà più fatta e la si eviterà.”
“Quindi tu classifichi questa conoscenza come pratica.”
“Esatto, in quanto è finalizzata ad un uso materiale, non è conoscenza 'pura'. Il bambino, crescendo, svilupperà diverse capacità, intrinseche alla natura umana, e di conseguenza elaborerà la sua conoscenza in diverse forme tutte necessarie per la limitata completezza del processo conoscitivo.”
“Ma cos'è questa conoscenza pura? Ce n'è forse bisogno?”
“Presto arriverò anche a quello. Ora riprendo il mio discorso.
La conoscenza pratica è una schematizzazione entro modelli razionali comprensibili all'uomo di quella che è la realtà a lui esterna. È una semplificazione, e rappresenta la realtà, ma non è la realtà, non riprende la sua essenza e il suo svolgimento, ma è solo l'interpretazione a posteriori che l'uomo vi fornisce. La scienza può essere considerata tra le massime espressioni di questo tipo di conoscenza, è il bambino che, evolvendosi, ha elaborato un sistema sempre più efficace e funzionale, migliorandolo di volta in volta. La scienza rappresenta una fase del suo processo conoscitivo, accanto a tante altre, ognuna delle quali si considerava, inquadrata nel suo momento, la più aderente alla realtà e la più valida.
Veniamo ora a presentare, sia pur in maniera minima, quella che io definisco conoscenza 'pura'.
Il bisogno dell'uomo di conoscenza non si ferma a quella pratica. La semplice osservazione della nostra storia ci fa vedere come l'uomo abbia da sempre cercato di andare oltre questa semplice conoscenza pratica. È la questione che ha posto l'uomo in una condizione di insoddisfazione, con questo imperante bisogno di andare oltre. L'arte, la letteratura, l'amore, la filosofia...si riconducono al valore pratico o significano qualcosa di più? Filosofia, φιλοσοφία, è 'amore per il sapere'. Non è sapere per fare, sapere per il potere, è sapere fine a sé stesso, la filosofia non è serva di nessuno. È un modello alternativo, forse esule dalla razionalità stessa, che punta oltre la superficie della realtà. Verso cosa? Talete si è distinto dagli altri uomini perché guardava in alto, verso le stelle. Questo desiderio, 'de-siderum', dalle stelle, tensione verso l'infinito, caratterizza la conoscenza pura. Questo ci può permettere di scostare quel velo di mistero che ancora ricopre la realtà fenomenica, il significato più recondito delle cose. La scienza non è di per sé volta alla praticità, ma è ormai unicamente orientata a questo, “sapere è potere”, si tramuta in tecnica, o, ancor meglio, in conoscenza pratica. Eppure anche la scienza mantiene, nel suo disegno di infinita tensione ad una realtà che non potrà mai descrivere appieno, che non potrà mai cogliere, quel desiderio che spinge l'uomo, attraverso numerosi mezzi, a quell'oltre tanto aspirato e che rimarrà sempre irraggiungibile. Forse è il percorso stesso il suo compimento, ogni singolo istante compiuto in quella direzione è verità, compiutezza. Rimango pur convinto che la scienza non abbia valore conoscitivo. È un modello creato dall'uomo, fallibile e suscettibile di modifiche, è una rappresentazione, sia pur internamente coerente, ma non è e non esaurisce la realtà. Conoscenza è la tensione, in tutte le sue sfaccettature, che passano per arte, letteratura, scienza, dialogo, pensiero, meditazione, riflessione, verso quell'irraggiungibile infinito che da sempre attira l'uomo. Forse vera conoscenza è trascendere tutti questi mezzi per dedicarsi a ciò verso cui essi puntano, che non sarà mai rappresentabile in alcun modo, né dalla più precisa legge scientifica, né dalla più raffinata poesia, andando al di là delle apparenze, cogliendo il nocciolo segreto delle cose.”
“Quindi non neghi la validità della scienza in questo modo.”
“Ancora una volta, voi ciechi sostenitori delle vostre verità cercate sofisticamente di attirare le mie frasi a voi. Non nego il suo valore pratico. Nego il suo valore conoscitivo se essa dovesse ripiegarsi su sé stessa, sulla sola rappresentazione fenomenica, senza cercare di andare oltre, rifacendosi a quell'umana tensione che definisco conoscenza 'pura'. Nessun modello razionale può esaurire questo bisogno, questa tensione conoscitiva, nessuno. Bisogna richiamarsi a qualcos'altro, a qualcosa che esuli dalla praticità e si rivolga unicamente all'uomo. Attorno ad essa si possono sviluppare anche conoscenze pratiche, ma il vero fine è un altro. Il vero fine...non credo di poterlo spiegare attraverso semplici e vuote parole, non credo sia possibile rinchiuderlo entro un modello. Alcuni modelli, però, possono indicarcelo, sia pur da lontano, possono aiutarci a percorrere quel lungo cammino il cui seme è deposto in ogni uomo, e che germoglia soltanto in colui che sceglie di beneficiare di questa illimitata potenzialità. La Filosofia, nucleo della conoscenza pura, riassume in sé quel carattere soggettivo che impedisce all'uomo di diventare semplice ingranaggio nelle mani del sistema, e gli permette di mantenere e salvare la sua umanità.”

lunedì 9 marzo 2009

Sull'origine della conoscenza

Eutidemo, fino ad allora silenzioso, prese la parola. “Tu hai detto che la scienza non ha valore conoscitivo. Ma allora cosa è conoscenza? Se dovessimo fermarci dinanzi a tutto ciò che non ha riscontro assolutamente certo ci fermeremmo immediatamente, e il nostro processo conoscitivo non avrebbe neppure inizio. Vuoi screditare così il bisogno di sapere dell'uomo? E, inoltre: certe cose che la scienza assume possono comunque ritenersi valide, non solo dal punto di vista pratico. La biologia descrive il funzionamento degli esseri viventi, ciò che definiamo muscolo funziona in un determinato modo. Se ciò non fosse conoscenza potremmo affermare anche cose totalmente bislacche, che tu porresti però sullo stesso piano, secondo il valore pratico, quando invece affermare che il muscolo funziona per semplice 'magia' è una incredibile assurdità.”
“Bene! Questa è senz'altro una critica costruttiva, e un ottimo spunto di riflessione. Come hai ben notato, io ho detto che la scienza non ha valore conoscitivo, ma non ho definito cosa significhi conoscenza, né perché l'uomo la persegue, né quali possano essere i suoi scopi.”
“È così.”
“Ora, per rispondere a ciò, penso che enunciare una semplice definizione sia veramente poco, anche perché, a ben pensarci, nutro qualche dubbio sul fatto che possa esistere una definizione sufficientemente esaustiva. Conoscenza è una cosa alquanto estesa, la cui spiegazione può richiedere una lunga digressione.”
Carmide esclamò con entusiasmo. “Sì maestro, spiegaci qual è la tua opinione in proposito, siamo desiderosi di ascoltarla!”
“Dunque. Etimologicamente la parola 'conoscenza' significa 'apprendere con l'intelletto', sistema di cognizioni acquisiti con lo studio e la meditazione, cominciare ad apprendere, a fare proprie delle nozioni, a farsi un'idea del mondo. Conoscere è apprendere, imparare. Tutte queste definizioni, però, non esauriscono a parer mio una così ampia facoltà, un così grandioso bisogno dell'uomo. Perché di bisogno si tratta, è un'esigenza dell'uomo, quella a conoscere, un'esigenza che lo richiama ad espandersi, a migliorarsi, a porsi in una condizione di maggiore consapevolezza, a realizzarsi come persona, a tendere verso un qualcosa che, sebbene appaia incomprensibile, vuole essere raggiunto, compreso, vissuto.
Voglio ora cominciare una digressione, per descrivere da dove possa derivare questo bisogno, da dove provenga la conoscenza, perché forse questo è l'unico modo per risalire al suo significato.”

“Ti ascoltiamo.”

“Partiamo dal principio, dal principio dell'uomo. Durante la gravidanza, l'uomo è tutt'uno con la madre. Il feto non conosce nulla dell'esterno, trova in sé tutto quanto lo possa soddisfare. Esso è solo soggetto in questo momento. Soggetto non ancora affermatosi propriamente come tale, in quanto non conosce null'altro all'infuori di sé, non contrapposto a null'altro, si considera un 'tutto'. Al momento della nascita, però, questa supremazia è destinata a crollare. Uscendo dal ventre della madre, il neonato viene immediatamente a contatto con l'esterno, scopre di non essere più solo, vede condizioni esterne differenti da quelle proprie al suo interno, condizioni che hanno una forte influenza, un forte impatto su di lui. La reazione è una sola: il pianto. Questa scoperta lo porta al dispiacere, alla disperazione. È tra le braccia della madre che ritrova una parte di sé, che colma in parte il suo dispiacere. Il neonato si è visto come soggetto, perché ha contrapposto a sé un oggetto, che lo ha spiacevolmente influenzato, ma non più come 'tutto'.
Venendo a contatto con questi oggetti, l'uomo nota come alcuni di essi riescano a procurargli piacere: il nutrimento, il calore della madre, mentre altri gli provochino dispiacere: la fame, il freddo. Il bambino ha instaurato dei rapporti con oggetti esterni, e questa è la sua primaria conoscenza: lo studio dello svolgersi di questi rapporti. Però, in base all'effetto che hanno su di lui, cerca di procurare a sé stesso il piacere e di allontanare il dispiacere. La sua conoscenza si esplica quindi nel comprendere lo svolgimento dei rapporti e cercare di trarre da essi beneficio. Questa conoscenza la possiamo definire come 'pratica'. Il bambino è dedito allo studio del suo rapporto con gli oggetti, l'influenza che questi hanno su di lui, e come poter modificare il rapporto per ottenere un'influenza a lui gradita. Il metodo usato per questa conoscenza è prevalentemente empirico: basato sull'esperienza, se una cosa riesce sgradita non verrà più fatta e la si eviterà. A tratti può parere dogmatica, ma a ben riflettere non è proprio così. Si pensa che gran parte di questa conoscenza si basi su ciò che affermano genitori ed educatori, ma la fiducia su questi riposta deriva da un lungo processo in cui la loro guida si è rivelata valida. Dopo numerose indicazioni, constatate dal bambino stesso con la propria esperienza, si accorge che riporre fiducia nei genitori può esentarlo dal subire ulteriori dispiaceri, e accetta ciò che gli viene detto, o, per lo meno, vi riflette.
Questa conoscenza passa per l'empirismo, numerose fasi di simil-dogmatismo, per perfezionare sempre più quella che è la conoscenza pratica del mondo esterno, basata comunque sul ritorno che l'uomo spera di ottenerne.”
“Quindi tu classifichi questa conoscenza come pratica.”
“Esatto, in quanto è finalizzata ad un uso pratico, non è conoscenza 'pura'.”
“Ma cos'è questa conoscenza pura? Ce n'è forse bisogno?”
“Presto arriverò anche a quello. Ora riprendo il mio discorso.
Il dogmatismo prima preso in considerazione può paragonarsi a quello religioso, che vede una spiegazione razionale di quelli che sono fenomeni ancora incompresi, secondo modelli comprensibili all'uomo. Essi hanno carattere dogmatico, basato sulla fiducia riposta dall'uomo nelle autorità religiose, nel fatto che sono una spiegazione 'comoda' e trovano il consenso dell'uomo. Non mi dilungo sulla questione religiosa, ma mi limito ad affermare il suo carattere dogmatico.
La conoscenza pratica è una schematizzazione entro modelli razionali comprensibili all'uomo di quella che è la realtà a lui esterna. È una semplificazione, e rappresenta la realtà, ma non è la realtà, non riprende la sua essenza e il suo svolgimento, ma solo l'interpretazione a posteriori che l'uomo vi fornisce.
Veniamo ora a presentare, sia pur in maniera minima, quella che io definisco conoscenza 'pura'.
Il bisogno dell'uomo di conoscenza non si ferma a quella pratica. La semplice osservazione della nostra storia ci fa vedere come l'uomo abbia da sempre cercato di andare oltre questa semplice conoscenza pratica. È la questione che ha posto l'uomo in una condizione di insoddisfazione, con questo imperante bisogno ad andare oltre. L'arte, la letteratura, l'amore, la filosofia. Si riconducono al valore pratico o significano qualcosa di più? Filosofia è 'amore per il sapere'. Non è sapere per fare, sapere per il potere, è sapere fine a sé stesso. Verso cosa punta? Talete si è distinto dagli altri uomini perché guardava in alto, verso le stelle. Questo desiderio 'de-sidera', dalle stelle, tensione verso l'infinito, caratterizza la conoscenza pura. Questo ci può permettere di scostare quel velo di mistero che ancora ricopre la realtà fenomenica, il significato più recondito delle cose. La scienza non è di per sé volta alla praticità, ma è ormai unicamente orientata a questo, “sapere è potere”, si tramuta in tecnica, in scienza, o ancor meglio, in conoscenza pratica. Eppure anche la scienza mantiene, nel suo disegno di infinita tensione ad una realtà che non potrà mai descrivere appieno, che non potrà mai cogliere, quel desiderio che spinge l'uomo, attraverso numerosi mezzi, a quell'oltre tanto aspirato e che rimarrà sempre irraggiungibile. Forse è il percorso stesso il suo compimento, ogni singolo istante compiuto in quella direzione è verità, compiutezza. Rimango pur convinto che la scienza non abbia valore conoscitivo. Conoscenza è la tensione, in tutte le sue sfaccettature, che passano per arte, letteratura, scienza, dialogo, pensiero, meditazione, riflessione, verso quell'irraggiungibile infinito che da sempre attira l'uomo. Forse vera conoscenza è trascendere tutti questi mezzi per dedicarsi a ciò verso cui essi puntano, che non sarà mai rappresentabile in alcun modo, né dalla più precisa legge scientifica, né dalla più raffinata poesia, perdendosi dolcemente nell'incantevole annullamento al tutto.”
“Quindi non neghi la validità della scienza in questo modo.”
“Ancora una volta, voi ciechi sostenitori delle vostre verità cercate sofisticamente di attirare le mie frasi a voi. Scienza non è realtà e non è conoscenza. Scienza è praticità, tecnica. Conserva, tuttavia, un seme di tensione umana verso qualcosa di più. La scienza non è vera. Cosa è vero? Né la scienza né la filosofia possono descriverlo, non può essere in alcun modo descritto, solo colto, percepito, sentito, forse neanche quello. Si rientra nell'ambito del forse, unica verità, accostata da un'altra, l'innegabile tensione, l'aspirazione, e l'energia che la provoca, l'energia che ci spinge, la volontà che ci permea e attraversa.”

PS non ditemi Kant perché lo so già :-P

martedì 3 marzo 2009

Dialogo: scienza vs filosofia (apogeo del tempo imperfetto nella descrizione iniziale)

Il sole tramontava, si spegnevano in lontananza gli ultimi tenui raggi della cocente luce estiva, e le ombre si allungavano sul paesaggio di Atene. Nella dimora di Eracleo molte voci si accavallavano, la musica non lasciava intatto un solo secondo di silenzio, cibi squisiti passavano dalle bocche degli invitati alla cena, il vino iniziava già a fare effetto.
Carmide richiamò su di sé l'attenzione generale, e si volse al padrone di casa. “Su Eracleo, tocca a te, esponici quanto ci avevi accennato prima, ma fallo con minuzia e in maniera convincente ed esaustiva, altrimenti tutti ti attaccheranno!”
“Ebbene, qual era l'argomento del nostro dibattito? Rinfrescatemi la memoria!”
La parola fu presa da Demodoco. “Guarda la realtà. Osservala. Con scrupolo appuntati le tue osservazioni sul particolare e traine leggi sui meccanismi generali, riconduci il particolare all'universale. Perché è questo che dobbiamo fare, non lasciare nulla al caso, usare un metodo, il metodo scientifico, e formulare le nostre leggi, che sono le stesse secondo cui si svolge la realtà. Il libro della natura è scritto in lingua matematica. La matematica, la geometria, la fisica, sono non solo i modi in cui noi studiamo la realtà, ma i modi stessi in cui essa si esprime, si svolge.”
A queste parole ribatté Carmide. “E come è possibile tutto ciò? Non è la matematica una rappresentazione dell'uomo?”
“La matematica è l'uomo che si è fatto trasparente, la realtà che si è annullata e ha svelato la sua più intima essenza. La matematica è la più intima essenza del reale. Ciò è provato innanzitutto dal semplice fatto che funziona. Ciò che prevediamo grazie alle nostre leggi, lo vediamo poi verificato come secondo i nostri calcoli. La scrupolosa osservazione degli eventi ci ha portato a descrivere il loro svolgimento e a prevederlo. Questo svolgimento è dato dalle cause che lo hanno messo in atto, e dalle condizioni che lo influenzano, esse stesse formanti ulteriori cause. Abbiamo così delineato la categoria della causalità, il principio secondo cui, ad una determinata causa, corrisponde un determinato effetto.”
Riprese la parola Carmide. “Dunque la scienza è una esatta descrizione del reale? Questo tu dici?”
Demodoco sorrise, e asserì: “Certamente. E come prima ho detto ciò è verificato dal fatto che funziona. L'edificio della scienza si è andato costruendo piano piano, mattone su mattone, dopo aver accuratamente verificato l'esattezza di ogni singola proposizione. Come negare l'esattezza di una legge fisica? Come negare l'efficacia di una previsione scientifica? La scienza è dapprima empirica, basata su sensate esperienze e certe dimostrazioni. Poi arriva a delineare quel quadro di ampio respiro che va a descrivere la realtà e a permetterci di interagire con essa, di controllarla, di dominarla, facendo in modo che possiamo servircene per i nostri brillanti scopi.”
“Quindi quale è il fine della scienza?”
“Il fine della scienza è ottenere una conoscenza in grado di permetterci di controllare e dominare la natura, ampliando le nostre possibilità e garantendoci una vita senz'altro migliore, più agevole, senza dover pensare a problemi secondari quali, ad esempio, la sopravvivenza fisica.”
Eracleo intervenne ed esclamò con pacato fervore: “Quello che tu dici mi pare terribile. Non solo parlando dei fini della scienza, ma anche per quanto riguarda la presunta esattezza del tuo metodo.”
“Presunta?”
“Presunta. Da dove deriverebbe l'incontestabilità del tuo metodo? Un sistema, benché internamente coerente, non trova la sua dimostrazione al suo interno. Se così non fosse, ciò ci permetterebbe di creare sistemi assurdi, che arriverebbero a giustificare cose altrettanto assurde. No, la verità che attribuisci alla scienza è basata su fallaci supposizioni.”
“Non negherai mica l'esattezza dei principi fisici? O la certezza matematica? Prendiamo un banalissimo esempio: Un calcolo può facilmente dimostrare come avverrà il moto di questo corpo se lo lasciassi cadere a terra. Come puoi dire che ciò non è esatto? Lo studio dell'accelerazione, della forza di gravità, della forza d'attrito, concorrono a descrivere con sempre maggiore precisione quel moto, fino a giungere alla completa esattezza, in un sistema che prende in considerazione tutte le possibili variabili. Certo puoi criticare l'impossibilità di una sua totale applicazione, ma non la sua esattezza teoretica.”
“Vedi, Demodoco. La coerenza della fisica e della matematica non le metto in dubbio. Essi sono sistemi creati dall'uomo, sue rappresentazioni, e al loro interno sono coerenti e ampiamente giustificate. Ciò su cui pongo l'accento è la loro non necessaria corrispondenza con la realtà. Tu mi parli di esattezza della descrizione scientifica di un evento. Ma la descrizione è necessariamente una rappresentazione umana, e, come tale, non trova un ontologico riscontro. È una rappresentazione, una semplificazione, la visione, secondo quelle che sono le categorie dell'uomo, di un evento. La stessa parola 'evento' può trarci in inganno, pensando di poterlo esaurire all'interno di termini, fredde parole. In realtà, ogni descrizione, per quanto accurata, è una semplificazione. La scienza non ha tanto valore conoscitivo, quanto pratico. Ciò affermo con forza e convinzione.”
“Tu stai delirando. Come può non avere valore conoscitivo quando rappresenta la realtà?”
“Primo. In quanto rappresentazione non è esente da errore. L'edificio della scienza da te decantato è più volte crollato in seguito a nuove scoperte, e verità fino ad allora incontestabili hanno perduto ogni validità. Cosa ci dice che tutto quanto tu ora assumi come vero non è destinato a crollare nuovamente? Secondo. Tu assumi il metodo scientifico come incontestabilmente valido. Ma ciò è dogmatico, va contro quello che tu stesso affermi, e trovi la giustificazione al tuo metodo unicamente al suo interno, secondo i tuoi stessi strumenti, che tu elevi a principio insindacabile di verità, senza alcuna giustificazione. Infine, una rappresentazione non è la realtà. Ciò che tu affermi, e pensi di dimostrare, non trova ontologico riscontro. Come tu credi che esista la forza di gravità, io posso controbattere che esista un Dio, come tra l'altro dimostrato da taluni filosofi. Chi ha ragione? Tu mi puoi dire che la tua forza è dimostrata dai suoi effetti. Ebbene, anche Dio può essere dimostrato come causa prima necessaria del mondo, raggiungibile risalendo tutta la catena causa-effetto. E per molte persone, in innumerevoli periodi storici la mia ipotesi era senz'altro più quotata della tua. E ora siamo arrivati all'apogeo della scienza, è vero. Ma cosa ci dice che non verrà anch'essa sostituita da qualcos'altro? In fondo essa si rivela essere solo strumento, se trovassimo qualcosa in grado di darci maggiore efficacia pratica seguiremmo quell'altra via, abbandonando senza fallo la scienza.”
Demodoco, un po' scosso, si fermò a riflettere. Intervenne Carmide. “Come puoi supporre che non esista la forza di gravità?”
“Io faccio l'esatto opposto. Io suppongo che essa esista. E in base a ciò traggo le mie conclusioni, ne derivo alcune leggi scientifiche che hanno però il carattere di supposizioni, trovano valore pratico. È in questo che nego il suo valore conoscitivo, rimanendo comunque fiducioso nel metodo scientifico e nella sua applicazione.”
Demodoco si ridestò dal suo silenzio e rispose. “Tu sostieni la fallacia della scienza. Come rispondi al fatto che essa si ritrovi alla fine di un progressivo e lungo percorso di conoscenza?”
“E come puoi tu sostenere che questo momento sia quello definitivo? Ogni epoca crede di aver raggiunto la verità, ed ogni epoca viene irrimediabilmente smentita da quella successiva.”
“Però non neghi ciò che ho io affermato sugli scopi della scienza, sull'obiettivo di dominio e controllo della scienza sulla natura.”
“Vedi, qui occorre compiere una riflessione. Sul piano pratico la scienza trova efficacia, è vero. Ma quello che mi sento ora di attaccare è proprio lo scopo che tu persegui, il dominio della natura per la realizzazione dei tuoi scopi.”
“Sapere è potere. E tu stesso hai detto di approvare la scienza nel suo valore pratico.”
“La ritengo valida, sì. Ma, semplicemente, non mi interessa. Qualora i nostri interessi si dovessero incontrare potrei anche appoggiarla, ma ciò non è ancora accaduto. A cosa serve raggiungere la Luna se non siamo in grado di stare sulla Terra? A quale pro perseguire il progresso scientifico distogliendo la nostra attenzione da quanto abbiamo di più importante, e ci sfugge? Che beneficio ci porta guadagnare la vita eterna se non siamo in grado di godere della magnificenza di ogni singolo attimo? Questo io affermo, questo è il mio scopo, questa è ciò che perseguo, in ogni istante della mia esistenza. La scienza è volta altrove. Ritengo di poca importanza il progresso. Ritengo che la scienza possa portare addirittura allo sfacelo della natura, questo non mi pare un buon obiettivo da perseguire. Potrebbero arrivare tempi in cui rispetto per la natura significhi danneggiarla il meno possibile, come se l'uomo dovesse necessariamente scontrarsi con essa e i limiti che essa gli pone. No, essa non mi pone dei limiti. Sono io che me li pongo, per mia scelta, per mia inettitudine o incapacità di volgere il mio sguardo oltre, oltre la materialità e, forse, oltre il mio ego e la mia superbia, per andare entro la mia coscienza. Questo è quello che voglio fare, abbandonare la scienza, e, forse, anche la filosofia. Voglio ritrovarmi ad essere unicamente uomo, nudo, dopo aver demolito ogni possibile sistema, ogni possibile rappresentazione, da quelle meramente scientifiche a quelle filosofiche. Lì sorgerà la mia vera natura, la parte più grande di me, come una piccola ginestra, incontestabile luce dinanzi al buio dell'esistenza, e lì questa luce proverà la sua grandezza, il suo valore, il suo essere luce, pura luce, il suo trovare energia, volontà di vivere nonostante tutto il resto, nonostante la materialità, nonostante lo scetticismo, il nichilismo, l'apparenza, il nulla, la noia, nonostante tutto. E luce sarà.”

domenica 15 febbraio 2009

Siam tutti politici

Delizioso. Pochi anni fa il mondo della politica era estremamente lontano. Ora, grazie a internet, grazie a Grillo, Travaglio&co, grazie ai blog, siamo tutti politici. Moltissimi si riservano il loro piccolo spazio, l'angoletto di critica dove esternare i propri giudizi. E, con la propria insindacabile autorità, si gettano sentenze al numeroso popolo di internet, riguardanti i vari Berlusconi, Veltroni, Veltrusconi, psiconani, topigigio, ai messia che rispondono al nome di Beppe, Marco, Piero ecc
Siamo veramente diventati tutti politici. Ma non nel senso greco di politikè, di ciò che attiene alla città, polis greca. Non nel senso in cui tutti si dedicano, nel loro piccolo, alla gestione del proprio paese, contribuendo al Bene Comune (doppia maiuscola d'obbligo). Siamo invece diventati tutti politici, tutti giudici, tutti chiaccheratori della domenica, pronti ed elargire buone e belle parole, consigli, giudizi, sentenze. Pronti a criticare le leggi, i comportamenti, da non so quale pulpito. Se è pur vero che tacere e lasciar fare è deleterio, elevarci tutti a magistrati detentori del giudizio superiore è quantomeno ridicolo. (E, nel frattempo, io faccio lo stesso, non sottraendomi a ciò che io stesso critico, almeno non mi si dica che non lo riconosco). Il popolo di internet, il popolo dei chiaccheratori, degli abitudinari dei bar è sempre lo stesso, fa sempre le stesse cose: critica critica critica. Mi viene in mente il paladino Marco Travaglio, con la sua autorevole pacatezza, che denuncia con ferma e forte voce i vari crimini commessi dai politici. Mi vengono in mente i libri top seller nei nostri negozi e nelle nostre edicole: La Casta (in ogni caso non l'ho letto, parlo per sentito dire e una smentita è piacevolmente accolta), La Casta2, Il bavaglio e chi più ne ha più ne metta. Di questi libri se ne vendono a milioni. Di gente in piazza ai Vday ce n'è a milioni. Siamo tutti imparziali e distaccati giudici di quel manipolo di ladri/mafiosi/terroristi che ci governano e ci piace tanto criticare. È cambiato qualcosa? No. Cambierà qualcosa? No. Così è troppo facile, veramente troppo facile. Criticare e criticare, gettare la responsabilità altrove ed ergerci a Giudici della situazione. Certo, il comportamento di quei politici è riprovevole, gli aggettivi “ladro/mafioso” calzano bene se accostati a quelle figure. Ma basta fare i giudici, basta criticare. Non serve a nulla. Soprattutto finché a sbagliare siamo noi in prima persona. E il tono di saccenza (di cui travaglio è secondo me maestro) con cui si fa ciò è ancor più snervante. Basta.

giovedì 5 febbraio 2009

Palestina: capire il torto

vi invito a guardare questo video di Paolo Barnard, che tratta la storia degli stati palestinese-israeliano secondo un'ottica decisamente diversa da quella ufficiale, ma senz'altro più consapevole e con un poco di oggettività in più.

lunedì 2 febbraio 2009

Triplice fisiologia della realtà

Cos'è un atomo? La parola trae origine dall'atomos democriteo, che significa “indivisibile”. L'atomo è la parte più piccola della materia, è indivisibile, è il suo mattoncino fondamentale, una microscopica biglia che, sommata a tutte le altre, compone il mondo materiale come lo conosciamo. E il mondo materiale è composto da atomi, i quali vanno ad occupare uno spazio vuoto, e in esso si muovono. Questa visione esclude totalmente l'energia. Il modello atomico della fisica classica ci rappresenta un nucleo, di carica positiva, attorno al quale orbitano degli elettroni carichi negativamente. Andando ad osservare il mondo a livello atomico ci aspetteremmo quindi di vedere queste componenti materiali. Niente affatto. L'atomo ci si presenta come qualcosa di assolutamente....invisibile. L'atomo quantistico, come studiato dagli inizi del 1900 ad oggi, è qualcosa di invisibile e privo di consistenza. È dato da elettroni, infinitamente piccoli, che ruotano incessantemente e vorticosamente attorno ad un nucleo, di dimensioni anch'esse infinitamente piccole. Però l'elettrone non è una vera e propria particella. Il suo comportamento varia tra quello di un corpuscolo e quello di un'onda, non ha consistenza, è energia in movimento. Lo stesso nucleo è anch'esso energia, presente sotto forma di materia. È per questo che nelle stelle i nuclei atomici dell'idrogeno danno vita a pura energia, perché essi stessi non sono altro che pura energia, sotto forma di materia. E=mc^2 significa questo appunto: la materia è energia. Un atomo è un piccolo vortice di energia e, come tale, emette un campo elettromagnetico, cioè emette delle vibrazioni, le quali andranno ad interagire con l'ambiente, con gli altri atomi. La consistenza che percepiamo di un atomo, la sua solidità, ci è data dall'interazione tra il nostro campo elettromagnetico ed il suo, quando arrivano a distanza minima (senza toccarsi) e la repulsione è più forte della forza con cui i corpi si avvicinano. Però un atomo, lo ribadisco, non ha consistenza materiale, la solidità percepita è solo un campo elettromagnetico. Un atomo, quindi, emette vibrazioni, e riceve vibrazioni dall'ambiente esterno. Queste vibrazioni di energia possono anche modificare l'atomo stesso.

Il corpo umano è fatto di atomi. Il corpo umano, pertanto, emette un campo elettromagnetico, emette e riceve vibrazioni, che andranno a modificare il corpo e lo faranno reagire in risposta all'ambiente esterno. La fisica quantistica è arrivata a giustificare la telepatia, in quanto scambio di vibrazioni tra due esseri umani, qualcosa di estremamente semplice. Una gazzella non ha bisogno di chiedere ad un leone se ha o meno cattive intenzioni, riceve da esso delle vibrazioni che, non in armonia con le proprie, le fanno percepire una situazione di pericolo. Quando entriamo in un ambiente che ci pare ostile, quando avvertiamo ostilità da un'altra persona è dato anche dalle vibrazioni che riceviamo, le quali, non in armonia con le nostre, ci fanno reagire di conseguenza. Questo è riferito ai 5 sensi, e al “sesto senso”, alle sensazioni che percepiamo, mai pienamente giustificate, ma con le quali l'uomo ha convissuto dalla notte dei tempi, e che si è sempre ritrovato ad oscurare e ritenere non valide. Pensata in questi termini la guarigione tramite l'imposizione delle mani, per quanto assurda, può avere una giustificazione: energia, vibrazioni emesse e ricevute, che possono potenzialmente modificare la stessa struttura atomica, la materia. Oppure il sesto senso, il presagio, la telepatia, l'affinità, si possono giustificare come scambio di vibrazioni, di energia. Tutto molto semplice: gli atomi comunicano unicamente attraverso questi scambi di vibrazioni e, pertanto, è in base ad essi che ricevono input e reagiscono.
Questo ci porta al primo punto: dall'ambiente riceviamo vibrazioni, le quali interagiscono con noi e possono essere con le nostre in armonia o in disaccordo, possono amplificarle come ridurle. Dall'ambiente percepiamo una molteplicità di informazioni, che ci danno un'idea di come lo stesso sia, che ci influenzano, influenzano la nostra idea dell'esterno e con le quali ci dobbiamo rapportare.
Cosa accade di queste informazioni? Vengono da noi interpretate, e noi ci regoliamo di conseguenza.
Secondo punto: noi regoliamo, a livello inconscio, il nostro modo di vedere la realtà secondo le nostre aspettative, secondo la nostra soggettività. Una volta ricevute queste informazioni dalla realtà, una volta percepito l'ambiente come ostile indossiamo un “filtro” che ci fa inconsciamente vedere tutto come ostile, perché convinti che lo debba essere. Non è nient'altro che la soggettiva visione della realtà, frutto del convincimento che abbiamo di come debba essere. Una persona pessimista vedrà tutta la realtà dal suo punto di vista, mentre una persona ottimista vedrà la stessa realtà in modo completamente diverso. Questo per l'atteggiamento con cui si pone di fronte ad essa, per il filtro che decide di indossare, in rapporto alle aspettative che ha di fronte alla realtà. Questo è un processo inconscio, frutto di una sorta di “programmazione” che abbiamo ricevuto e di tutte le influenze che riceviamo e ci comandano di vedere la realtà in un certo modo.
Ora il terzo punto: la realtà dipende da noi. Noi interagiamo con questa realtà, in risposta alle vibrazioni che riceviamo ne emettiamo delle altre, le quali sono frutto del nostro modo di interpretarla. Un esempio banale: ci svegliamo con la luna storta, ci regoliamo di conseguenza e agiamo in maniera da emettere vibrazioni che si sommino a quelle (già negative) ricevute. La realtà è negativa sotto 3 aspetti: la realtà stessa, il filtro di “pessimismo” con cui la vediamo, e le vibrazioni negative che contribuiscono a peggiorarla. Così come il mondo esterno ha influenzato noi, noi influenziamo il mondo esterno, nello stesso identico modo, attraverso vibrazioni ed energia che si somma o si annulla. E approfondiamo il punto parlando ancora di fisica quantistica. Questa branca della scienza ci insegna una cosa importantissima: a determinare la realtà è fondamentale l'osservatore. La realtà è data da possibilità, e dal soggetto che sceglie una di queste possibilità e la identifica come reale. Un oggetto è potenzialmente dappertutto, il suo essere in un posto dipende strettamente dal fatto che l'osservatore lo ha lì collocato. Sono concetti parecchio oscuri, non pienamente giustificati e assai difficili da comprendere. La realtà è l'interazione tra un mondo di possibilità ed un osservatore che ne identifica una sola come reale. L'ambiente per come ci appare non è quindi qualcosa di esterno, che influenza noi, terminali passivi. Siamo noi stessi a determinarlo e noi stessi ad influenzarlo. La realtà non è qualcosa di esterno e immutabile, è strettamente collegata a noi, siamo noi stessi a determinarla e modificarla.

boh

Ideale immortale
eterna sorgente
che trabocca, la cui goccia scende
fino a noi, delicato riflesso
di un'immensità lontana.
La cui semplice immagine
trascina in un vortice di infinita bellezza:
danzano le figure, due occhi,
una sensazione, un sentimento,
i miei occhi,
un odore, un pensiero,
i tuoi occhi,
non si ferma, nulla lo ferma,
una nuova sensazione, un nuovo sentimento,
ancora i miei occhi, ancora i tuoi.
Possibile che una semplice goccia...?
Annebbiata dal mare del tempo
si staglia limpida, e ci invita a guardare lassù.

mercoledì 28 gennaio 2009

Giornata della memoria

Oggi (ieri :-P) è la giornata della memoria, e in classe abbiamo visto un documentario tratto da “palco e retropalco” (o qualcosa del genere, una trasmissione rai comunque) sull'argomento, che ripercorreva alcuni momenti della shoah e illustrava in maniera cruda e toccante quello che è stato il genocidio ebraico.
Da questa pagina della storia sono rimasto sempre colpito, colpito e amareggiato. Ma non è di questo che voglio parlare, se ne è dibattuto sempre molto, e in maniera decisamente migliore di come potrei farlo io. Però guardando quel video oggi non ho potuto fare a meno di pensare all'eredità che ci è rimasta di tutto ciò. Un grande senso di colpa, uno sguardo delicato e compassionevole verso il popolo ebreo, il popolo vittima, a cui tutto si deve restituire. E se penso che quasi 7 milioni di ebrei sono morti per ottenere ciò che accade ora in israele/palestina, penso quasi siano morti inutilmente. Ho sollecitato l'argomento in classe, menzionando alcuni dei numerosi crimini commessi dallo stato israeliano, che non sono solo crimini di guerra, sono crimini contro l'umanità intera. Ho accennato ai numerosi richiami fatti dall'onu verso israele, i quali sono tutti caduti nel nulla, e nessuno (per lo meno tra i “potenti”) si è schierato apertamente contro questo fatto, contro la presunzione di uno stato che si reputa sopra a tutti gli altri, sopra alle più basilari regole dettate dal buon senso o anche solo dal rispetto per la vita. Ho fatto notare come, mentre i soldati nazisti uccidevano 20 ebrei per ogni soldato nazista morto, gli israeliani uccidano 1500 palestinesi contro 4 o 5 ebrei morti. La risposta che ho ottenuto è stata sconfortante. La mia prof ha detto di conoscere già questi fatti, ma che ciò non deve minimamente intaccare il ricordo di 7 milioni di ebrei sterminati senza nessun motivo, a tavolino. Lungi da me il volerlo fare, questa pagina è e deve rimanere una pagina indelebile, ferma nei nostri pensieri e far parte del bagaglio con cui ci apprestiamo a guardare il presente (come tutte la storia dovrebbe essere per noi). Ed è proprio per questo che quanto avviene ora in palestina è un oltraggio alla memoria di quegli ebrei. Che non avevano nulla a che fare con quelli che sterminano civili in palestina oggi, sia ben chiaro. Oltre ciò mi è stato detto “cosa possiamo fare noi?”. Io ho sollecitato a informarsi, a diffondere queste notizie, ragionare insieme, dibattere, conoscere, formare il proprio spirito critico e maturare una maggiore consapevolezza con cui porsi di fronte al mondo. “Sì, belle parole, ma cosa possiamo fare di concreto? Queste decisioni non competono a noi, che non possiamo fare altre che rimanere indignati da ciò che compiono i capi di stato. Ma noi non ne siamo responsabili, e ha poco senso porre queste questioni qui e ora, quando non ci competono e non possiamo farci assolutamente nulla”. È vero, non possiamo farci nulla. Però questo è l'atteggiamento che ha portato noi tutti, il mondo intero, nella situazione in cui si trova, ci troviamo. Cosa possiamo fare di concreto? Io rimango convinto che ciò che accade ai piani alti sia solamente lo specchio di ciò che accade in noi. E penso che delle grandi ingiustizie che accadano, una piccola parte della colpa me la debba addossare proprio io. Perché io non sono migliore di quei capi di stato che tanto mi piace criticare. Almeno, non lo sarò finché non potrò considerarmi “pulito” sotto ogni aspetto. E per fare ciò la via è quasi impossibile, va dal rinunciare ad ogni atteggiamento egoista, fino al rinunciare ai benesseri che derivano dallo sfruttamento di altri uomini (e, nel primo mondo in cui vivo, significa rinunciare quasi a tutto). È vero, di concreto non possiamo fare nulla. Nulla. È sconfortante. Il mondo non può cambiare. Ciò che avviene in Palestina non dipende da me, e nulla posso fare per risolvere, anche in minima parte, le cose. Ma guai a farsi fermare da questo. Come diceva Erich Fromm “Non spetta a noi completare l'opera, ma non abbiamo il diritto di astenerci dall'iniziarla”. E anche se non dovesse essere mai completata, chiuderci dietro ad un “cosa possiamo fare di concreto?” significa condannare lo spirito dell'uomo, condannare la speranza, condannare sé stessi e tutti gli altri, mascherandosi dietro alla propria presunta impotenza. Se è vero che a fermare la guerra non possiamo essere noi (“cosa dovremmo fare, scendere tutti e manifestare in piazza? Credi forse che qualcuno ci ascolterebbe?”), forse anche solo spingendo un'altra persona a riflettere sulla questione, e partendo da questa a pensare in maniera più consapevole e lungimirante, potremmo compiere qualcosa di senz'altro utile e, in un certo modo, grande. Questo continuo giustificazionismo, questo deresponsabilizzarsi ci aiuta sempre a ergerci di fronte alle ingiustizie del mondo, noi, presunti Buoni e Giusti della situazione, che ci ritroviamo da soli e impotenti a combattere contro un mondo di Cattivi e Ingiusti. Non stanno così le cose, affatto, sebbene ci sia molto più comodo crederlo.
Il discorso è ancora ben lungo, queste sono solo alcune riflessioni a caldo. Nella speranza di scrivere qualcosa di più esaustivo a breve, ora mi dedico alla mia triste attività scolastica (triste finché rimane semplice memorizzazione e studio mnemonico di materie pressoché inutili).
Buona giornata

lunedì 26 gennaio 2009

Sdolcinato e melenso ossimoro amoroso

“Ti amo”. È un ossimoro. Sono due concetti totalmente antitetici.
“Amo” è l'infinito, l'ineffabile, l'immenso, è il cuore, è il sentimento, sono le ali dell'uomo che decide di volare, è l'uomo che si annulla, si apre a quella sensazione che è...tutto, è in tutto, è così magnifica, lo fa sentire meravigliosamente piccolo, minuscolo, eppure parte, partecipe di qualcosa di più grande. Sì, “amo” significa riconoscersi piccoli di fronte alla grandezza dei sentimenti, della vita, dei pensieri, delle sensazioni. E decidere di viverli, farsi trasportare, cullare. È...indescrivibile.
“Ti”... “ti” è l'esatto opposto. Significa rinchiudere tutta quella immensa grandezza in un altro essere minuscolo, significa chiudere milioni e milioni di porte per aprirne una, minuscola, e guardare solo quella, con l'illusione che l'infinito sia lì. L'uomo che ama ha accarezzato l'infinito, si è lasciato accarezzare dal suo cuore, è in armonia con tutto il resto, vede dietro ogni insignificante particolare un briciolo di luce che lo convince che il mondo è qualcosa più che semplice materia. L'uomo “ti” ha smesso di guardarsi attorno. Non ricerca più l'armonia con il resto degli uomini, animali, piante, oggetti. L'uomo “ti” ha un solo chiodo fisso in testa, guarda un unico piccolo puntino e si chiude attorno ad esso, guarda solo quello, tutto il resto gli scorre accanto, senza minimamente sfiorarlo.
Siamo sempre più persuasi che l'amore sia per una persona sola. E che amore significhi dedicarsi ad essa, vivere con essa. E tutto il resto ci scorre accanto, come se nulla fosse. Io non voglio amare UNA persona. Io voglio che una persona mi faccia amare. Amare tutto. Non voglio che mi conceda la chiave della sua porta, così che io possa rintanarmi sempre lì. Voglio che mi accompagni mentre apro tutte le altre.
“Dio sta dietro a tutto, ma tutto nasconde Dio; le cose sono buie, le creature opache; amare un essere è renderlo invisibile” (Victor Hugo). Quanto più ci si concentra su quel singolo essere, quanto più lo si osserva e non si cerca di andare oltre, tanto più tutto il resto perde significato, sfugge, scompare. È l'effimero gioco delle nostre illusioni. Se con quel “ti amo” vogliamo intendere “amo te e solo te”, se vogliamo così rinchiudere un sentimento potenzialmente infinito in un minuscolo anfratto, in un minuscolo puntino...l'amore muore, l'amore è morto. E di seguito accadrà che quel singolo puntino sovrasterà tutto il resto, prima le meraviglie del mondo e degli altri esseri, poi noi stessi, fino a farci scomparire. Lo osserviamo, lo nutriamo, ci avvolgiamo in esso, non smettiamo di coccolarlo e perdiamo di vista tutto il resto. Come diceva Anthony de Mello “Quando godi del profumo di migliaia di fiori, non ti sentirai triste per l'assenza di uno solo”. E se invece ti focalizzi su uno solo, fai dipendere tutto da esso, allora ti perderai il profumo di tutto il resto, ti perderai tutta la magia circostante, ne guarderai uno solo, il quale ti soddisferà per un po', ma che potrebbe poi voltarti le spalle, abbandonarti, o semplicemente non soddisfarti più. E ti crogiolerai per la perdita, convinto che l'amore, l'infinito, sia andato perduto per sempre. Non è così. Non l'hai mai neanche sfiorato. L'amore sono tutti gli altri fiori, l'amore sei tu che decidi non solo di annusarli, ma di lasciare che il loro profumo ti inebri, di lasciare che quanto ti viene offerto ti scorra dentro, di accettarlo. Non è una scelta che riguarda un oggetto esterno, è una scelta che riguarda esclusivamente noi. Scegliere di “aprire” quella porta e lasciare che tutto ci faccia visita, ci si offra e ci aiuti a volare sempre più in alto. E, secondo questa definizione di amore, l'altro non è più fine, scopo, ma mezzo. Non è più ciò verso cui è diretto il nostro sguardo, ma E' il nostro sguardo. E questo non è più un “ti amo”, è un più generico “amo”, forse neppure quello. Forse solamente un...non ha importanza definirlo...sarebbe ancora una volta rinchiuderlo entro delimitati e statici confini, quando è un qualcosa di illimitato, dinamico, eterno, ineffabile...

martedì 20 gennaio 2009

solo...una storia

Proviamo a scrivere una piccola storia...lasciamoci trasportare, lasciamo che i contorni si mettano a fuoco, la figura si delinei sempre più chiaramente e i personaggi prendano vita, pensino, agiscano e interagiscano tra loro. Lasciamo che siano loro a fare tutto.

Ronald uscì di casa, accostando dolcemente la porta. Era ancora notte fonda, non voleva svegliare nessuno. Iniziò a camminare, un passo dietro l'altro, lungo la solita strada, che percorreva da quando era un bambino e....

luoghi comuni. Nient'altro che luoghi comuni. Riproviamo

Il martellante rumore dei vagoni, lo sferragliare del treno sui binari impediva a Jean di prendere sonno. Gli occhi chiusi si riaprirono un'altra volta ancora, e osservarono con stupore quanto gli scorreva davanti: era un lago, immenso, sul quale si rifletteva il candido bagliore della luna. E, in un solo momento, gli tornò in mente tutto, tutto quanto gli era accaduto. Tutte le persone che aveva incontrato, tutti gli sguardi che aveva incrociato, tutti i volti su cui si era posato il suo sguardo, tutti i sorrisi ricevuti, tutti gli sguardi torvi che lo avevano frettolosamente squadrato prima di voltarsi altrove e cambiare strada. O anche solo quei bambini che giocavano, le cui delicate grida sembravano una sinfonia stupenda....

niente, periodi discordanti, un po' brevi, un po' lunghi, temi ancora banali. Troppi punti, troppe virgole, troppi giri di parole per non dire nulla. Tentiamo ancora

Era solo...

Troppo criptico, assoluto, troppo...troppo. Inizio sbagliato

Sotto tutte queste anime, la stessa terra. Sopra tutte queste anime, lo stesso sole, la stessa luna. Minuscoli ingranaggi, infinitesimali formiche, così piccole, fragili, invisibili, quasi inesistenti. In loro come nei più grandi degli animali si realizza il divino gioco della natura, dello spirito, dell'infinito. L'uomo non è nulla di più, nulla di meno. Fa parte anch'esso di questo maestoso organismo che...

E questa cosa c'entra?

Come posso iniziare? Da dove devo iniziare? Forse non ha neppure senso...cosa devo dire? Cosa voglio comunicare? Possono le parole condensare l'incessante moto dei miei pensieri? Possono anche solo indicarlo da lontano, come un piccolo dito indica una stella?
Abbandoniamo le frivolezze estetiche, la bellezza, la pienezza non è di queste, pallidi riflessi di una beltà che aspirano a sostituire. Non può avere un valore in sé l'arte. Il valore non è dei singoli, non è delle singole cose. Oppure sì. Solo se questi singoli si annullano a sé stessi, alla divina vibrazione che è dentro loro stessi, nella loro più intima interiorità...e la lasciano esplodere, fondere con l'esterno e...

Era solo. Solo. È tremenda la solitudine. Eppure...è da soli che si può vivere in mezzo agli altri, apprezzare l'altro, conoscere l'altro, sentirsi parte dell'umanità intera. Una collettività che prescinde il singolo individuo è massa informe, spenta. Ogni singolo puntino deve brillare di luce propria, trasmetterla agli altri, riceverla dagli altri, unirsi a loro, fondere la propria vibrazione, il proprio colore a tutti gli altri e formare luce pura, luce bianca. È da soli che si è liberi. Liberi di conoscere l'altro, liberi di incontrare l'altro, liberi di apprezzare l'altro, di amarlo. L'amore non riguarda due persone. L'amore riguarda il rapporto che una singola persona ha con il tutto che lo circonda. E un essere amato può aiutare scostare quel velo di mistero che nasconde questo tutto.

Non era solo. Di fianco a lui c'era una persona. E un'altra, e un'altra ancora. Ognuno brillava di luce propria, ognuno si fondeva con gli altri.

Si, era solo. Quelle immagini illusorie svanirono, appena aprì gli occhi. Mosse un altro passo, centinaia di migliaia si erano susseguiti nei giorni precedenti, e ancora non vedeva la meta...Non c'era una meta forse. Il lungo cammino non aveva una fine. Avrebbe potuto proseguire per giorni, mesi, anni, e non arrivare. Dove voleva arrivare? Doveva scoprirlo. Forse era questa la sua meta, scoprire la sua meta. E i passi si susseguivano, uno dopo l'altro, la fatica penetrava sempre più nelle sue membra, la brezza gli accarezzava il viso ed entrava, sempre più a fondo, fino a fargli rabbrividire il cuore. Chiuse gli occhi un'altra volta. Cadde. Si addormentò. Dove si trovava ora? Sua madre piangeva in un angolo, la porta era aperta, il vento entrava e agitava le tende, i suoi capelli, rovesciava a terra le pile di fogli sul tavolo. “Che hai mamma?” Non lo sentì. Non rispose. Rimase impietrito per pochi, lunghissimi, secondi, poi corse fuori, nel giardino, sotto la pioggia. Inciampò, rotolò giù dalla collina e si ritrovò davanti ad un grosso portone. Lo aprì, e si svegliò.
Si, era solo. Stanco, affamato e assetato. E incredibilmente solo.

Cosa significa? Lo so forse io? È solo una creazione inconscia? Rappresenta solo i miei travagli interiori riportati su carta?

La meta era ancora lontana.

No!

Chiuse gli occhi, era un'abitudine ormai. Con gli occhi chiusi poteva concentrarsi sulle sue sensazioni, dare voce ai suoi pensieri. Si concentrò sul vento, lo ascoltò profondamente. Eccolo, quello che cercava. Il vento. Ascoltò il canto di un uccello, lontano. Eccolo, quello che cercava. Ascoltò il suo cuore, osservò i suoi ricordi, si lasciò cullare dalla sensazione dell'acqua che gli fluiva sulle mani. Eccolo. Luce.

Tutti noi quando chiudiamo gli occhi non vediamo che il buio. L'assenza di luce. Ma la luce non è solo visiva, la luce è...energia. Che ti fluisce nel corpo, che puoi sentire, forte, candida, energica. Nei ricordi, nelle sensazioni, nel pensiero, nell'assenza di pensiero. Puoi provare tutto, puoi ascoltare tutto, sentire tutto e vedere tutto, e non coglierla. Puoi pensare e ripensare, e non coglierla.

Riaprì gli occhi. Ormai la sua vita era questo: apri gli occhi e vedi, chiudili e senti. Senti e pensa. Pensa e vola. Vola e riaprili.

Non c'era una fine, un fine. Perché non c'era un momento più alto degli altri, uno in cui sentirsi finalmente “arrivato”. Ogni singolo momento era quel momento, e aveva bisogno dell'attimo successivo, e di quello precedente, ma, in sé, possedeva quel qualcosa, quel magico “più” che gli colorava il presente.

Che scrivere? Per chi scrivere? Esigenza mia? Bisogno di fare impressione sugli altri? Bisogno di comunicare, estraniare i miei pensieri? Ottenere riconoscimento? Che significa riconoscimento? Vedere che queste parole paion belle ad altri o vedere che hanno influenza, suscitano qualcosa?
Ed è così necessario l'altro? Perché porsi tutti questi problemi? Non sono solo IO nella mia vita? L'unica interminabile costante? Tutto il resto scorre accanto...forse non soddisfano neanche me?
Quante domande...ora...forse occorre compiere il passo definitivo...smettere di pensare e iniziare a vivere, gettare la penna, alzare gli occhi e godere della magica sinfonia della vita.
Buona serata.

domenica 11 gennaio 2009

La piccola storia di 'cuore'

C'era una piccola parola, 'cuore', stampata su un foglio di carta. Aveva di fianco a sé molti amici, molte altre parole, dall'eccentrica 'confusione' alla semplice 'fiore', dall'altezzosa 'ragione' alla pigra 'sonno'. E cuore guardava di fianco a sé il suo mondo, dalla frase che formavano lei e le sue vicine più strette, fino al lungo discorso del libro che componevano. Però sentiva la mancanza di qualcosa. È vero, erano tante, volevano sicuramente dire qualcosa, stavano tranquille nel loro piccolo mondo. Però cuore era sognatrice, e mentre le altre parlavano tra loro e si guardavano attorno, cuore rivolgeva il suo sguardo in alto, verso un mondo di cui si sentiva il pallido riflesso, verso una speranza, un bisogno che sentiva palpitare in petto e che le annebbiava i sentimenti.
Un giorno capitò uno strano episodio. Cuore era ancora giovane, arrivata su quel foglio da poco tempo, come tutte le sue compagne. Uno scossone le fece sussultare tutte, e una grande luce le abbagliò, a poco a poco ottenebrata da un fugace sguardo che su di esse si posava. “È lui!” pensò cuore. Dietro a quegli occhi vedeva sé stessa. Ma non il nero e statico inchiostro di cui era composta. Vedeva un “qualcosa” che le dava colore, dinamicità, che la faceva saltare da una parte all'altra, che la faceva giocare allegramente assieme alle altre parole, anch'esse colorate, vivaci, limpide, dinamiche. Eppure erano sempre loro. Si guardò nuovamente attorno e rivide le sue amiche, sulle quali la sopraggiunta luce aveva gettato un po' di scompiglio, ma che erano rimaste intatte, ferme, chiaramente stampate. Alzò nuovamente lo sguardo e iniziò a girarle la testa, in un turbine di emozioni che non credeva neanche di poter sentire, di poter vivere. Era curiosa, voleva provare ad andare oltre, a vedere quell'altra faccia di sé che non sapeva di conoscere. Allora si decise, saltò dentro a quegli occhi, lasciò le sue compagne e si diresse verso l'ignoto, quell'immenso nuovo mondo che un po' la spaventava, ma che la incuriosiva terribilmente e la faceva sentire più...”più”! Non era un più definibile, solo un più. Un vero più. Che le piaceva tantissimo. Arrivò dentro a quello sguardo, si arrampicò fin sull'origine di quello, e da quella postazione guardò oltre. Lo sguardo si era spostato dal libro, che era stato dolcemente chiuso, e si volgeva verso una grande luce, a cui cuore non era mai stata abituata, e che, sulle prime, la abbagliò. Pian piano riuscì a riaprire gli occhi e vide uno spettacolo magnifico: era un grande disco dorato, che emanava un calore che la fece candidamente sussultare, e, nella sua semplicità, le diceva di stare tranquilla, di camminare ancora per godere di altre dolci emozioni come quelle appena vissute. Lo sguardo si spostò ancora, e si posò su una figura che cuore non aveva mai neppure immaginato. A guardarla le veniva in mente una sua vecchia compagna, 'ragazza', ma al tempo stesso era totalmente diversa. Era colorata, era sorridente, si muoveva, cantava! E aveva anche lei due fantastici occhi. Lo sguardo si soffermò proprio su quelli. Cuore li osservò, trepidante. E vide una cosa che non si aspettava. Rivide sé stessa. Era ancora lei. Ma era colorata di un'infinità di altre sfumature differenti, danzava in un ritmo dolce e allegro, giocava, cantava, sorrideva. Guardò sé stessa, come ad uno specchio, e un complice sguardo la invitò a ricambiare il sorriso. Lo fece, e sentì sé stessa, l'altra sé stessa e il mondo circostante investite da un dolce tepore che...la fece sentire ancora più “più” di prima! Non ci avrebbe mai creduto, eppure era così! Si sentiva più...”più” di prima. E non stava guardando altro che una delle infinite sfumature di sé stessa. Era felice. Con entusiasmo saltò ancora oltre, oltre il primo sguardo, oltre il secondo, oltre le altre sfumature di sé, planò dolcemente sul libro, riprese il suo posto, e guardò nuovamente in alto, felice. Alzò un dito e indicò, a tutte le sue compagne, quel magico universo che le si era appena dischiuso.