mercoledì 28 gennaio 2009

Giornata della memoria

Oggi (ieri :-P) è la giornata della memoria, e in classe abbiamo visto un documentario tratto da “palco e retropalco” (o qualcosa del genere, una trasmissione rai comunque) sull'argomento, che ripercorreva alcuni momenti della shoah e illustrava in maniera cruda e toccante quello che è stato il genocidio ebraico.
Da questa pagina della storia sono rimasto sempre colpito, colpito e amareggiato. Ma non è di questo che voglio parlare, se ne è dibattuto sempre molto, e in maniera decisamente migliore di come potrei farlo io. Però guardando quel video oggi non ho potuto fare a meno di pensare all'eredità che ci è rimasta di tutto ciò. Un grande senso di colpa, uno sguardo delicato e compassionevole verso il popolo ebreo, il popolo vittima, a cui tutto si deve restituire. E se penso che quasi 7 milioni di ebrei sono morti per ottenere ciò che accade ora in israele/palestina, penso quasi siano morti inutilmente. Ho sollecitato l'argomento in classe, menzionando alcuni dei numerosi crimini commessi dallo stato israeliano, che non sono solo crimini di guerra, sono crimini contro l'umanità intera. Ho accennato ai numerosi richiami fatti dall'onu verso israele, i quali sono tutti caduti nel nulla, e nessuno (per lo meno tra i “potenti”) si è schierato apertamente contro questo fatto, contro la presunzione di uno stato che si reputa sopra a tutti gli altri, sopra alle più basilari regole dettate dal buon senso o anche solo dal rispetto per la vita. Ho fatto notare come, mentre i soldati nazisti uccidevano 20 ebrei per ogni soldato nazista morto, gli israeliani uccidano 1500 palestinesi contro 4 o 5 ebrei morti. La risposta che ho ottenuto è stata sconfortante. La mia prof ha detto di conoscere già questi fatti, ma che ciò non deve minimamente intaccare il ricordo di 7 milioni di ebrei sterminati senza nessun motivo, a tavolino. Lungi da me il volerlo fare, questa pagina è e deve rimanere una pagina indelebile, ferma nei nostri pensieri e far parte del bagaglio con cui ci apprestiamo a guardare il presente (come tutte la storia dovrebbe essere per noi). Ed è proprio per questo che quanto avviene ora in palestina è un oltraggio alla memoria di quegli ebrei. Che non avevano nulla a che fare con quelli che sterminano civili in palestina oggi, sia ben chiaro. Oltre ciò mi è stato detto “cosa possiamo fare noi?”. Io ho sollecitato a informarsi, a diffondere queste notizie, ragionare insieme, dibattere, conoscere, formare il proprio spirito critico e maturare una maggiore consapevolezza con cui porsi di fronte al mondo. “Sì, belle parole, ma cosa possiamo fare di concreto? Queste decisioni non competono a noi, che non possiamo fare altre che rimanere indignati da ciò che compiono i capi di stato. Ma noi non ne siamo responsabili, e ha poco senso porre queste questioni qui e ora, quando non ci competono e non possiamo farci assolutamente nulla”. È vero, non possiamo farci nulla. Però questo è l'atteggiamento che ha portato noi tutti, il mondo intero, nella situazione in cui si trova, ci troviamo. Cosa possiamo fare di concreto? Io rimango convinto che ciò che accade ai piani alti sia solamente lo specchio di ciò che accade in noi. E penso che delle grandi ingiustizie che accadano, una piccola parte della colpa me la debba addossare proprio io. Perché io non sono migliore di quei capi di stato che tanto mi piace criticare. Almeno, non lo sarò finché non potrò considerarmi “pulito” sotto ogni aspetto. E per fare ciò la via è quasi impossibile, va dal rinunciare ad ogni atteggiamento egoista, fino al rinunciare ai benesseri che derivano dallo sfruttamento di altri uomini (e, nel primo mondo in cui vivo, significa rinunciare quasi a tutto). È vero, di concreto non possiamo fare nulla. Nulla. È sconfortante. Il mondo non può cambiare. Ciò che avviene in Palestina non dipende da me, e nulla posso fare per risolvere, anche in minima parte, le cose. Ma guai a farsi fermare da questo. Come diceva Erich Fromm “Non spetta a noi completare l'opera, ma non abbiamo il diritto di astenerci dall'iniziarla”. E anche se non dovesse essere mai completata, chiuderci dietro ad un “cosa possiamo fare di concreto?” significa condannare lo spirito dell'uomo, condannare la speranza, condannare sé stessi e tutti gli altri, mascherandosi dietro alla propria presunta impotenza. Se è vero che a fermare la guerra non possiamo essere noi (“cosa dovremmo fare, scendere tutti e manifestare in piazza? Credi forse che qualcuno ci ascolterebbe?”), forse anche solo spingendo un'altra persona a riflettere sulla questione, e partendo da questa a pensare in maniera più consapevole e lungimirante, potremmo compiere qualcosa di senz'altro utile e, in un certo modo, grande. Questo continuo giustificazionismo, questo deresponsabilizzarsi ci aiuta sempre a ergerci di fronte alle ingiustizie del mondo, noi, presunti Buoni e Giusti della situazione, che ci ritroviamo da soli e impotenti a combattere contro un mondo di Cattivi e Ingiusti. Non stanno così le cose, affatto, sebbene ci sia molto più comodo crederlo.
Il discorso è ancora ben lungo, queste sono solo alcune riflessioni a caldo. Nella speranza di scrivere qualcosa di più esaustivo a breve, ora mi dedico alla mia triste attività scolastica (triste finché rimane semplice memorizzazione e studio mnemonico di materie pressoché inutili).
Buona giornata

lunedì 26 gennaio 2009

Sdolcinato e melenso ossimoro amoroso

“Ti amo”. È un ossimoro. Sono due concetti totalmente antitetici.
“Amo” è l'infinito, l'ineffabile, l'immenso, è il cuore, è il sentimento, sono le ali dell'uomo che decide di volare, è l'uomo che si annulla, si apre a quella sensazione che è...tutto, è in tutto, è così magnifica, lo fa sentire meravigliosamente piccolo, minuscolo, eppure parte, partecipe di qualcosa di più grande. Sì, “amo” significa riconoscersi piccoli di fronte alla grandezza dei sentimenti, della vita, dei pensieri, delle sensazioni. E decidere di viverli, farsi trasportare, cullare. È...indescrivibile.
“Ti”... “ti” è l'esatto opposto. Significa rinchiudere tutta quella immensa grandezza in un altro essere minuscolo, significa chiudere milioni e milioni di porte per aprirne una, minuscola, e guardare solo quella, con l'illusione che l'infinito sia lì. L'uomo che ama ha accarezzato l'infinito, si è lasciato accarezzare dal suo cuore, è in armonia con tutto il resto, vede dietro ogni insignificante particolare un briciolo di luce che lo convince che il mondo è qualcosa più che semplice materia. L'uomo “ti” ha smesso di guardarsi attorno. Non ricerca più l'armonia con il resto degli uomini, animali, piante, oggetti. L'uomo “ti” ha un solo chiodo fisso in testa, guarda un unico piccolo puntino e si chiude attorno ad esso, guarda solo quello, tutto il resto gli scorre accanto, senza minimamente sfiorarlo.
Siamo sempre più persuasi che l'amore sia per una persona sola. E che amore significhi dedicarsi ad essa, vivere con essa. E tutto il resto ci scorre accanto, come se nulla fosse. Io non voglio amare UNA persona. Io voglio che una persona mi faccia amare. Amare tutto. Non voglio che mi conceda la chiave della sua porta, così che io possa rintanarmi sempre lì. Voglio che mi accompagni mentre apro tutte le altre.
“Dio sta dietro a tutto, ma tutto nasconde Dio; le cose sono buie, le creature opache; amare un essere è renderlo invisibile” (Victor Hugo). Quanto più ci si concentra su quel singolo essere, quanto più lo si osserva e non si cerca di andare oltre, tanto più tutto il resto perde significato, sfugge, scompare. È l'effimero gioco delle nostre illusioni. Se con quel “ti amo” vogliamo intendere “amo te e solo te”, se vogliamo così rinchiudere un sentimento potenzialmente infinito in un minuscolo anfratto, in un minuscolo puntino...l'amore muore, l'amore è morto. E di seguito accadrà che quel singolo puntino sovrasterà tutto il resto, prima le meraviglie del mondo e degli altri esseri, poi noi stessi, fino a farci scomparire. Lo osserviamo, lo nutriamo, ci avvolgiamo in esso, non smettiamo di coccolarlo e perdiamo di vista tutto il resto. Come diceva Anthony de Mello “Quando godi del profumo di migliaia di fiori, non ti sentirai triste per l'assenza di uno solo”. E se invece ti focalizzi su uno solo, fai dipendere tutto da esso, allora ti perderai il profumo di tutto il resto, ti perderai tutta la magia circostante, ne guarderai uno solo, il quale ti soddisferà per un po', ma che potrebbe poi voltarti le spalle, abbandonarti, o semplicemente non soddisfarti più. E ti crogiolerai per la perdita, convinto che l'amore, l'infinito, sia andato perduto per sempre. Non è così. Non l'hai mai neanche sfiorato. L'amore sono tutti gli altri fiori, l'amore sei tu che decidi non solo di annusarli, ma di lasciare che il loro profumo ti inebri, di lasciare che quanto ti viene offerto ti scorra dentro, di accettarlo. Non è una scelta che riguarda un oggetto esterno, è una scelta che riguarda esclusivamente noi. Scegliere di “aprire” quella porta e lasciare che tutto ci faccia visita, ci si offra e ci aiuti a volare sempre più in alto. E, secondo questa definizione di amore, l'altro non è più fine, scopo, ma mezzo. Non è più ciò verso cui è diretto il nostro sguardo, ma E' il nostro sguardo. E questo non è più un “ti amo”, è un più generico “amo”, forse neppure quello. Forse solamente un...non ha importanza definirlo...sarebbe ancora una volta rinchiuderlo entro delimitati e statici confini, quando è un qualcosa di illimitato, dinamico, eterno, ineffabile...

martedì 20 gennaio 2009

solo...una storia

Proviamo a scrivere una piccola storia...lasciamoci trasportare, lasciamo che i contorni si mettano a fuoco, la figura si delinei sempre più chiaramente e i personaggi prendano vita, pensino, agiscano e interagiscano tra loro. Lasciamo che siano loro a fare tutto.

Ronald uscì di casa, accostando dolcemente la porta. Era ancora notte fonda, non voleva svegliare nessuno. Iniziò a camminare, un passo dietro l'altro, lungo la solita strada, che percorreva da quando era un bambino e....

luoghi comuni. Nient'altro che luoghi comuni. Riproviamo

Il martellante rumore dei vagoni, lo sferragliare del treno sui binari impediva a Jean di prendere sonno. Gli occhi chiusi si riaprirono un'altra volta ancora, e osservarono con stupore quanto gli scorreva davanti: era un lago, immenso, sul quale si rifletteva il candido bagliore della luna. E, in un solo momento, gli tornò in mente tutto, tutto quanto gli era accaduto. Tutte le persone che aveva incontrato, tutti gli sguardi che aveva incrociato, tutti i volti su cui si era posato il suo sguardo, tutti i sorrisi ricevuti, tutti gli sguardi torvi che lo avevano frettolosamente squadrato prima di voltarsi altrove e cambiare strada. O anche solo quei bambini che giocavano, le cui delicate grida sembravano una sinfonia stupenda....

niente, periodi discordanti, un po' brevi, un po' lunghi, temi ancora banali. Troppi punti, troppe virgole, troppi giri di parole per non dire nulla. Tentiamo ancora

Era solo...

Troppo criptico, assoluto, troppo...troppo. Inizio sbagliato

Sotto tutte queste anime, la stessa terra. Sopra tutte queste anime, lo stesso sole, la stessa luna. Minuscoli ingranaggi, infinitesimali formiche, così piccole, fragili, invisibili, quasi inesistenti. In loro come nei più grandi degli animali si realizza il divino gioco della natura, dello spirito, dell'infinito. L'uomo non è nulla di più, nulla di meno. Fa parte anch'esso di questo maestoso organismo che...

E questa cosa c'entra?

Come posso iniziare? Da dove devo iniziare? Forse non ha neppure senso...cosa devo dire? Cosa voglio comunicare? Possono le parole condensare l'incessante moto dei miei pensieri? Possono anche solo indicarlo da lontano, come un piccolo dito indica una stella?
Abbandoniamo le frivolezze estetiche, la bellezza, la pienezza non è di queste, pallidi riflessi di una beltà che aspirano a sostituire. Non può avere un valore in sé l'arte. Il valore non è dei singoli, non è delle singole cose. Oppure sì. Solo se questi singoli si annullano a sé stessi, alla divina vibrazione che è dentro loro stessi, nella loro più intima interiorità...e la lasciano esplodere, fondere con l'esterno e...

Era solo. Solo. È tremenda la solitudine. Eppure...è da soli che si può vivere in mezzo agli altri, apprezzare l'altro, conoscere l'altro, sentirsi parte dell'umanità intera. Una collettività che prescinde il singolo individuo è massa informe, spenta. Ogni singolo puntino deve brillare di luce propria, trasmetterla agli altri, riceverla dagli altri, unirsi a loro, fondere la propria vibrazione, il proprio colore a tutti gli altri e formare luce pura, luce bianca. È da soli che si è liberi. Liberi di conoscere l'altro, liberi di incontrare l'altro, liberi di apprezzare l'altro, di amarlo. L'amore non riguarda due persone. L'amore riguarda il rapporto che una singola persona ha con il tutto che lo circonda. E un essere amato può aiutare scostare quel velo di mistero che nasconde questo tutto.

Non era solo. Di fianco a lui c'era una persona. E un'altra, e un'altra ancora. Ognuno brillava di luce propria, ognuno si fondeva con gli altri.

Si, era solo. Quelle immagini illusorie svanirono, appena aprì gli occhi. Mosse un altro passo, centinaia di migliaia si erano susseguiti nei giorni precedenti, e ancora non vedeva la meta...Non c'era una meta forse. Il lungo cammino non aveva una fine. Avrebbe potuto proseguire per giorni, mesi, anni, e non arrivare. Dove voleva arrivare? Doveva scoprirlo. Forse era questa la sua meta, scoprire la sua meta. E i passi si susseguivano, uno dopo l'altro, la fatica penetrava sempre più nelle sue membra, la brezza gli accarezzava il viso ed entrava, sempre più a fondo, fino a fargli rabbrividire il cuore. Chiuse gli occhi un'altra volta. Cadde. Si addormentò. Dove si trovava ora? Sua madre piangeva in un angolo, la porta era aperta, il vento entrava e agitava le tende, i suoi capelli, rovesciava a terra le pile di fogli sul tavolo. “Che hai mamma?” Non lo sentì. Non rispose. Rimase impietrito per pochi, lunghissimi, secondi, poi corse fuori, nel giardino, sotto la pioggia. Inciampò, rotolò giù dalla collina e si ritrovò davanti ad un grosso portone. Lo aprì, e si svegliò.
Si, era solo. Stanco, affamato e assetato. E incredibilmente solo.

Cosa significa? Lo so forse io? È solo una creazione inconscia? Rappresenta solo i miei travagli interiori riportati su carta?

La meta era ancora lontana.

No!

Chiuse gli occhi, era un'abitudine ormai. Con gli occhi chiusi poteva concentrarsi sulle sue sensazioni, dare voce ai suoi pensieri. Si concentrò sul vento, lo ascoltò profondamente. Eccolo, quello che cercava. Il vento. Ascoltò il canto di un uccello, lontano. Eccolo, quello che cercava. Ascoltò il suo cuore, osservò i suoi ricordi, si lasciò cullare dalla sensazione dell'acqua che gli fluiva sulle mani. Eccolo. Luce.

Tutti noi quando chiudiamo gli occhi non vediamo che il buio. L'assenza di luce. Ma la luce non è solo visiva, la luce è...energia. Che ti fluisce nel corpo, che puoi sentire, forte, candida, energica. Nei ricordi, nelle sensazioni, nel pensiero, nell'assenza di pensiero. Puoi provare tutto, puoi ascoltare tutto, sentire tutto e vedere tutto, e non coglierla. Puoi pensare e ripensare, e non coglierla.

Riaprì gli occhi. Ormai la sua vita era questo: apri gli occhi e vedi, chiudili e senti. Senti e pensa. Pensa e vola. Vola e riaprili.

Non c'era una fine, un fine. Perché non c'era un momento più alto degli altri, uno in cui sentirsi finalmente “arrivato”. Ogni singolo momento era quel momento, e aveva bisogno dell'attimo successivo, e di quello precedente, ma, in sé, possedeva quel qualcosa, quel magico “più” che gli colorava il presente.

Che scrivere? Per chi scrivere? Esigenza mia? Bisogno di fare impressione sugli altri? Bisogno di comunicare, estraniare i miei pensieri? Ottenere riconoscimento? Che significa riconoscimento? Vedere che queste parole paion belle ad altri o vedere che hanno influenza, suscitano qualcosa?
Ed è così necessario l'altro? Perché porsi tutti questi problemi? Non sono solo IO nella mia vita? L'unica interminabile costante? Tutto il resto scorre accanto...forse non soddisfano neanche me?
Quante domande...ora...forse occorre compiere il passo definitivo...smettere di pensare e iniziare a vivere, gettare la penna, alzare gli occhi e godere della magica sinfonia della vita.
Buona serata.

domenica 11 gennaio 2009

La piccola storia di 'cuore'

C'era una piccola parola, 'cuore', stampata su un foglio di carta. Aveva di fianco a sé molti amici, molte altre parole, dall'eccentrica 'confusione' alla semplice 'fiore', dall'altezzosa 'ragione' alla pigra 'sonno'. E cuore guardava di fianco a sé il suo mondo, dalla frase che formavano lei e le sue vicine più strette, fino al lungo discorso del libro che componevano. Però sentiva la mancanza di qualcosa. È vero, erano tante, volevano sicuramente dire qualcosa, stavano tranquille nel loro piccolo mondo. Però cuore era sognatrice, e mentre le altre parlavano tra loro e si guardavano attorno, cuore rivolgeva il suo sguardo in alto, verso un mondo di cui si sentiva il pallido riflesso, verso una speranza, un bisogno che sentiva palpitare in petto e che le annebbiava i sentimenti.
Un giorno capitò uno strano episodio. Cuore era ancora giovane, arrivata su quel foglio da poco tempo, come tutte le sue compagne. Uno scossone le fece sussultare tutte, e una grande luce le abbagliò, a poco a poco ottenebrata da un fugace sguardo che su di esse si posava. “È lui!” pensò cuore. Dietro a quegli occhi vedeva sé stessa. Ma non il nero e statico inchiostro di cui era composta. Vedeva un “qualcosa” che le dava colore, dinamicità, che la faceva saltare da una parte all'altra, che la faceva giocare allegramente assieme alle altre parole, anch'esse colorate, vivaci, limpide, dinamiche. Eppure erano sempre loro. Si guardò nuovamente attorno e rivide le sue amiche, sulle quali la sopraggiunta luce aveva gettato un po' di scompiglio, ma che erano rimaste intatte, ferme, chiaramente stampate. Alzò nuovamente lo sguardo e iniziò a girarle la testa, in un turbine di emozioni che non credeva neanche di poter sentire, di poter vivere. Era curiosa, voleva provare ad andare oltre, a vedere quell'altra faccia di sé che non sapeva di conoscere. Allora si decise, saltò dentro a quegli occhi, lasciò le sue compagne e si diresse verso l'ignoto, quell'immenso nuovo mondo che un po' la spaventava, ma che la incuriosiva terribilmente e la faceva sentire più...”più”! Non era un più definibile, solo un più. Un vero più. Che le piaceva tantissimo. Arrivò dentro a quello sguardo, si arrampicò fin sull'origine di quello, e da quella postazione guardò oltre. Lo sguardo si era spostato dal libro, che era stato dolcemente chiuso, e si volgeva verso una grande luce, a cui cuore non era mai stata abituata, e che, sulle prime, la abbagliò. Pian piano riuscì a riaprire gli occhi e vide uno spettacolo magnifico: era un grande disco dorato, che emanava un calore che la fece candidamente sussultare, e, nella sua semplicità, le diceva di stare tranquilla, di camminare ancora per godere di altre dolci emozioni come quelle appena vissute. Lo sguardo si spostò ancora, e si posò su una figura che cuore non aveva mai neppure immaginato. A guardarla le veniva in mente una sua vecchia compagna, 'ragazza', ma al tempo stesso era totalmente diversa. Era colorata, era sorridente, si muoveva, cantava! E aveva anche lei due fantastici occhi. Lo sguardo si soffermò proprio su quelli. Cuore li osservò, trepidante. E vide una cosa che non si aspettava. Rivide sé stessa. Era ancora lei. Ma era colorata di un'infinità di altre sfumature differenti, danzava in un ritmo dolce e allegro, giocava, cantava, sorrideva. Guardò sé stessa, come ad uno specchio, e un complice sguardo la invitò a ricambiare il sorriso. Lo fece, e sentì sé stessa, l'altra sé stessa e il mondo circostante investite da un dolce tepore che...la fece sentire ancora più “più” di prima! Non ci avrebbe mai creduto, eppure era così! Si sentiva più...”più” di prima. E non stava guardando altro che una delle infinite sfumature di sé stessa. Era felice. Con entusiasmo saltò ancora oltre, oltre il primo sguardo, oltre il secondo, oltre le altre sfumature di sé, planò dolcemente sul libro, riprese il suo posto, e guardò nuovamente in alto, felice. Alzò un dito e indicò, a tutte le sue compagne, quel magico universo che le si era appena dischiuso.

sabato 10 gennaio 2009

Esegesi della società di massa

La società di massa è quel vasto insieme che comprende, ingloba e fagocita quella gran parte di uomini che ad essa si confanno, si omologano, da essa traggono incontestabili benefici (soprattutto economico-politici) ed alla quale si “appiattiscono”, tendendo sempre più al livellamento ad un valore medio che annulla i sempre più placidi estremi. Il termine “massa” ha innegabilmente assunto connotati negativi, indicativi di un disagio dell'uomo, che vede nel livellamento economico-sociale la caduta e la perdita della propria identità e unicità, l'annullamento di differenze fisiologiche e naturali: dalla personalità al colore della pelle, dal benessere economico (come frutto del lavoro) al semplice gusto personale.
Però poco ci si sofferma su come la società di massa presenti alcuni indubbi aspetti positivi. Questo appiattimento ha portato benessere economico ad un gran numero di persone, aprendo le porte ad un proletariato che prima non aveva alcuna ricchezza oltre lo stretto indispensabile, e concedendogli la possibilità di usufruire di beni di consumo, piccoli surplus che rendono senz'altro più comoda e piacevole la vita. La scolarizzazione di massa ha favorito l'accesso a questa estesa fascia della società alla cultura, al sapere, finalizzato sì al lavoro, ma con qualche reminiscenza greca del “sapere per il sapere” o per il solo diletto; ha dato partecipazione politica a queste numerose persone, per un conseguimento sempre maggiore dell'ideale platonico che identifica il bene dello stato con il bene della maggioranza. Senz'altro un notevole avvicinamento a quel socialismo che ha preso piede negli scorsi due secoli, sia pur con numerosi contrasti e incongruenze, ma che però ha trovato la realizzazione dell'estensione del benessere socio-economico ad una grande quantità di persone, un proletariato che non sente più l'esigenza rivoluzionaria esaltata dal socialismo marxista e che sente soddisfatte molte delle sue necessità. Una parziale realizzazione del modello socialista quindi. Anzi, a dire il vero, una trasformazione del proletariato, verso una sorta di pseudo-bassa borghesia. Borghesia, di cui facciamo parte quasi noi tutti, con l'esclusione degli alto borghesi e di un sottoproletariato quanto mai reale ma che ha assunto un'inconsistenza tale da renderlo più che invisibile, quasi inesistente. Questo sottoproletariato è il terzo mondo, sono i tre quarti della popolazione mondiale che vivono con meno di due dollari al giorno, vittime di una società che per mantenere un livello medio alto, concedendo alla massa uno stile di vita superiore a quello medio naturalmente imposto, deve necessariamente togliere ad altri, a molti altri, a quegli strati di popolazione dimenticati, abbandonati, lontani, lontani da tutto, “lontani dagli occhi, lontani dal cuore” come diceva Luca Abort, non mi stancherò mai di citarlo. Pur rimanendo convinto di questa terribile incongruenza, che a chiamarla tale si commette un enorme peccato (non in senso cristiano, ma concedetemi l'uso del termine), mi limiterò a parlare della massa che noi consideriamo tale, il sistema in cui noi viviamo e che, purtroppo, esclude totalmente quel terzo mondo, dai calcoli, dalla mente, dai pensieri, dal senso di giustizia e dalla moralità di cui tanto ci vantiamo e sulla quale ci ergiamo, presunti uomini buoni e giusti. Nel ristretto ambito della nostra società, si è realizzato parzialmente quel modello socialista, che vede l'uomo medio in condizioni agiate, con tutti i primi bisogni a portata di mano e con l'accesso, sia pur limitato, ad una grande vastità di beni di consumo, non necessari certo, ma senz'altro piacevoli.
La massificazione è stata ed è tuttora ampiamente criticata, dispregiata, osteggiata e malvista dal mondo degli intellettuali e dal popolano medio di questa stessa massa. Queste critiche, diretto derivato delle critiche al socialismo, di cui la massificazione è considerata l'ovvia conseguenza, puntano il dito sull'inevitabile conformismo e omologazione di cui sono vittima gli individui, con una quasi totale alienazione dell'uomo al sistema. Freud nella sua “psicologia collettiva e analisi dell'Io” illustra come l'uomo senta il bisogno di far parte di una collettività, sulla quale rifarsi per colmare le proprie individuali lacune e debolezze, facendo leva sulla “forza del gruppo”. Meccanismo naturale, riscontrabile anche negli animali, e figlio di una interdipendenza reciproca che gli uomini creano con la società stessa, per ottimizzare le risorse di ciascun individuo. Un ruolo fondamentale è inoltre ricoperto dal “capo”, figura centrale alla quale tutti i singoli individui della collettività si rifanno, che li rappresenta, li accomuna, li fortifica e li suggestiona, incarnando il pensiero comune e la “volontà generale” del gruppo. Questo capo non è necessariamente una persona fisica, può essere anche un'organizzazione, un insieme di persone, una presunta divinità o addirittura un ideale. Il capo della società di massa è la massa stessa. E ha molteplici sfumature: sono la libertà, il consumismo, tutti quegli ideali che ci accomunano sotto un unico denominatore, e ai quali deleghiamo il nostro stesso pensiero. L'individuo inserito in una collettività, di cui condivide questi ideali, non può fare a meno di rifarsi ad essi nel modellamento stesso dei suoi pensieri, in quanto ad essi deve rimanere fedele, per non perdere i vasti benefici che trae dall'essere parte di suddetta collettività. Secondo Marcuse, sociologo e filosofo del secolo scorso, l'individuo della società contemporanea è l'uomo “economico”, che riduce la sua vita alle uniche funzioni di produzione e consumo, condizionato e schiavizzato da un'industria della cultura, propria del sistema stesso, che annulla la democrazia a favore di una “totalitarità” del consumismo stesso. Di simile avviso è il suo contemporaneo Erich Fromm, il quale denuncia la condizione di un uomo che, pur facente parte della folla, si è atomizzato, è solo, avendo perso ogni legame veramente “umano” con l'altro. Si ritrova così di fronte ad una libertà che significa responsabilità, dovere, mettersi in gioco, essere artefice del proprio destino e della propria vita, e dalla quale fugge, compiendo una “fuga dalla libertà” (titolo di una delle sue opere) per adagiarsi su quel placido e comodo conformismo che significa deresponsabilizzarsi, rinunciare a pensare. Appunto questa è una delle più importanti funzioni del “sistema”, della massa: deresponsabilizzare l'uomo. Anziché vedere la realtà come propria diretta ed idealistica emanazione, anziché comprendere che i problemi che stanno nel mondo sono i suoi problemi, che egli contribuisce a causare ed aggrava, sceglie di annullarsi a questa massa e liberarsi da ogni colpa. La critica alla società di massa, alla folla stessa che assorbe incessantemente gli uomini, costringendoli al livellamento, alla perdita della propria identità, è ferrea e, spesso, inappuntabile. Occorre però fare un ulteriore riflessione.
La società pseudo borghese in cui viviamo, lo stato sociale medio di cui facciamo quasi tutti parte, molteplici esponenti di una dilagante mediocrità, è, come detto prima, la realizzazione, sia pur parziale, di una società “proto”-socialista. In questa società si realizza quell'ideale socialista ben espresso da George Orwell con le parole: “La maggior parte dei socialisti si limita ad evidenziare che una volta instaurato il socialismo saremo più felici in senso materiale e presuppone che ogni problema venga a cadere quando si ha la pancia piena. Invece è il vero contrario: quando si ha la pancia vuota non ci si pone altro problema che quello della pancia vuota. È quando ci lasciamo alle spalle lo sfruttamento e la dura fatica che cominciamo davvero a farci domande sul destino dell'uomo e sulle ragioni della sua esistenza”. Il socialismo non vede nel raggiungimento di un comune benessere socio-economico il suo traguardo. Questa è solo la base, il fondamento, su cui fondare una società dove l'uomo, libero da bisogni materiali, può dedicarsi a problemi di altro ordine, a questioni esistenziali che si pongono come unica differenza tra l'uomo e il mondo animale, che vedono l'uomo come “infinita potenzialità” che può elevarsi al di sopra della propria materiale condizione, per giungere ad una realizzazione spirituale e ad un vivere la vita che supera la sterile e vacua esistenza e sopravvivenza. Da una parte l'uomo materiale, inserito, l'uomo con i piedi fermamente ancorati a terra, dall'altra l'uomo che alza lo sguardo e, libero da quelle ancore materiali che lo trattengono, può finalmente spiccare il volo verso un ineffabile, nuovo e più grande valore della vita.
Il fatto è che la società odierna queste basi le pone. Non sono estremamente solide, ma l'uomo è in parte libero da questi bisogni, libero di spiccare il volo. In questo si è realizzato l'ideale socialista. Ma è qui che si infrange il sogno dell'uomo, è qui che l'uomo apre le ali senza essere realmente capace di volare. L'uomo crea spontaneamente altre ancore che lo rinsaldano ancora più fortemente a terra e ad esse si lega. L'uomo, che è in grado di uscire dalla caverna dell'allegoria platonica, smettere di guardare le ombre e godere della vera luce, volge lo sguardo nelle tenebre e lì ristagna. Le catene sono state sciolte, aperte, eppure l'uomo non solo esita a spiccare il volo, si lega indissolubilmente al suo mondo e rifiuta di uscirne. La colpa non è della massa, dell'omologazione. Questa non è che una conseguenza di un uomo che ha spento il suo sogno, di un uomo che ha perso anche l'intenzione, del volo. E questa società non rispecchia altro che questo: fallaci ideali, vacui valori, bisogni materiali, una quasi totale esclusione di una dimensione spirituale, ma anche solo emozionale e pura nel suo esserlo.
Se però questa è la massa, fatta di uomini che ad essa si annullano, all'interno/esterno di questa si pongono altri uomini. Perché il sogno del volo non è in tutti rattrappito. Sono gli emarginati, i pazzi, i filosofi, gli incompresi, gli artisti, ma non solo: sono gli impiegati, gli operai, gli uomini che prima di identificarsi come etichette, danno a sé stessi l'appellativo di esseri umani. Scomodi per questo sistema, dannosi oltre che inutili e superflui. Ma, di questa base, qualcuno ha saputo approfittare. Rimane costante l'idea che il bene di tutti sia il bene della maggioranza, e che se la maggioranza è diretta verso una direzione, questi altri la seguono, docilmente. Però subentra un primo problema: questa non è la reale maggioranza. La reale maggioranza è quel sottoproletariato di cui parlavo prima. Che, forse, al posto della pseudo borghesia, si comporterebbe in maniera esattamente uguale. In fondo siamo in grandissima parte determinati dall'ambiente in cui viviamo e dalle influenze che riceviamo, inutile pensare che loro o noi, ai piani alti, ci comporteremmo diversamente dalle persone che tanto critichiamo. Però, lo ribadisco, la vera maggioranza è altrove.
Punto secondo: la società moderna, fautrice di un turbocapitalismo e consumismo feroce, incessante e sempre più devastante, sta distruggendo sé stessa ed il pianeta. Questa società vive in una bolla di sapone, sta consumando risorse a ritmi che non è capace di sostenere a lungo termine, sta consumando sé stessa con i meccanismi che ha essa stessa inventato. La crisi potrebbe finire, sebbene non lo creda, ma ne seguiranno altre. E se, nonostante tutto, il capitalismo dovesse trovare il modo di salvarsi, la crisi ambientale lo farebbe soccombere presto. È innanzitutto, quindi, necessario riplasmare la società. Questo non avverrà spontaneamente, sarà forse necessaria una catastrofe, una crisi ancor più grande, un disastro ambientale, una terza guerra mondiale, forse tutte queste cose si sommeranno. Ma appare inevitabile che accada.
Riprendiamo ora un processo evolutivo avvenuto realmente sul nostro pianeta, e facciamo su di esso una analogia. La terra, un tempo luogo arido e inospitale, si è popolata di piccoli esseri viventi, piccoli microrganismi, che si sono pian piano evoluti, fino a diventare organismi acquatici multicellulari, sempre più grandi, sempre più complessi e sviluppati. A questi sono seguiti gli anfibi, che hanno raggiunto la terraferma e l'hanno colonizzata. Vi si sono aggiunti i mastodontici rettili, i dinosauri. I dinosauri avevano una caratteristica importante: erano dotati di grandissima forza, erano enormi, potenti, ma non avevano sviluppato il loro cervello. Esso era minuscolo, al confronto, e i dinosauri non sfruttavano adeguatamente le loro pur grandi potenzialità, non avendo alcuna prospettiva per il futuro, basando la loro vita solo sul bisogno presente. I dinosauri sono scomparsi. Non si sa ancora bene il perché, è stato in seguito ad una catastrofe ambientale si presume. Accanto a loro si erano sviluppati i piccoli e impotenti mammiferi che, di fianco ai grandi dinosauri, nulla poterono, ma seppero resistere a questa catastrofe, seppero essere più lungimiranti, seppero guardare al futuro e colonizzarono il pianeta, sebbene apparentemente molto più deboli.
Ora uno sguardo verso l'uomo. L'uomo si è sviluppato, a partire da piccole comunità, piccole collettività malamente organizzate, fino a formare organismi sempre più complessi, villaggi, città, stati veri e propri. L'uomo ha colonizzato tutto il pianeta, ha saputo adattarsi a diverse condizioni, come i primi anfibi che colonizzarono la terraferma. E poi si è ingrandito, ha moltiplicato le sue forze, si è sviluppato, similmente ai rettili. Ha iniziato a costruire le sue braccia industriali, è diventato potente, terribilmente potente. Ma il suo cervello non si è sviluppato. Persegue ancora un ostinato dominio della natura, pecca di scarsa lungimiranza, pensa solo a strumentalizzare la natura e sfruttarla sempre più. Ma, come accadde per i dinosauri, quest'uomo è destinato a scomparire. Semplicemente, la cosa non potrà continuare ancora a lungo, senza che ci siano dei dovuti cambiamenti. E, quando quest'uomo scomparirà, a sostituirlo sarà un uomo diverso, che avrà sviluppato una nuova consapevolezza, un nuovo spirito. Che siano quegli uomini ai margini del sistema? Sicuramente non saranno altri uomini come quelli di cui consiste il sistema attuale. E se dovessero rimanere, riprenderebbero in mano la società precedente verso un'ulteriore distruzione. E ancora e ancora, finché non cambierà necessariamente qualcosa. Allora sorgerà questo piccolo uomo. Allora sorgerà la piccola ginestra leopardiana, dopo tutto il suo pessimismo e dopo le sue innumerevoli critiche. Allora sorgerà il “regno dei cieli”, allora cambierà qualcosa. Sorgerà questo nuovo, piccolo uomo. Forse non sarà neppure più uomo. Forse sarà quel gabbiano, che ha finalmente imparato a volare, che potrà spiccare il volo e puntare sempre più in alto. Forse. Ma mi piace crederlo. E potrebbe essere anch'essa solamente un'altra fase, un'ulteriore fase. Ma è fallace e pretenzioso credere che il volo verso l'infinito possa spiccarlo solo quest'uomo. Perché siamo anche noi portatori di questo infinito bisogno. Questo bisogno verso uno stesso, unico e costante ideale, che permea la realtà, che la crea, che si nasconde dietro ad essa, che è essa stessa, che siamo noi stessi. E, se “ad occhi chiusi/la luce non può penetrare”, ad occhi aperti si schiude l'eterna danza e l'ineffabile grandezza di quel divino assoluto al quale, da tempi immemori, l'uomo si è sempre rivolto e che, in sporadici quanto luminosi episodi, ha sicuramente raggiunto.

lunedì 5 gennaio 2009

Il giardino leopardiano

Torno a parlare di Leopardi (big leo per gli amici), questa volta per imposizione scolastica, riporto pure qua nell'angolino dove espongono i miei vani pensieri :-P

“Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento.” (Zib. 4175). Ecco il giardino leopardiano: “quasi un vasto ospitale” (ospedale, nda), un luogo di sofferenza, patimenti; ovunque qua e là un fiore deve subire l'attacco di un ape, un albero deve soffrire il cocente calore del sole, le foglie sono martoriate dai numerosi animali. E questa non è altro che l'esistenza. Il cantico delle creature è rovesciato, il giardino bucolico, arcadico, idillico non esiste più, anzi, a ben vederlo, non è mai esistito. Solamente l'uomo lo ha malvisto, ha creduto di avere davanti a sé l'estasi della vita, il piacere dei sensi, l'armonia, la magnificenza della natura. Niente di più sbagliato, ad occhi attenti si vede bene come non celi altro che una necessaria infelicità, una “souffrance” cui sono sottoposti tutti gli esseri, chi più, chi meno. Questa è, appunto, l'esistenza. Un'esistenza che, dietro ad apparenti momenti di felicità, a fugaci immagini che sembrano far trasparire una limpida e chiara luce, non nasconde altro che una grande sofferenza, un lungo percorso fatto di travagliati momenti, inestirpabili tristezze, dilaganti noie. La vita è, innanzitutto, mortale. Ciò significa che, nonostante tutto, nonostante le illusioni, nonostante la fallace felicità cui pensiamo di godere, tutto è destinato a scomparire, a cadere nell'oblio. Non solo questo: la vita è una lunga malattia, mortale. Appena venuto al mondo l'uomo è già irrimediabilmente malato, costretto a “vivere” (quale termine più appropriato?) i gravosi sintomi del malanno che si porta appresso. Leopardi ci dice che la vita è “il viaggio di uno zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso per montagne ertissime, luoghi sommamente aspri, faticosi, difficili, alla neve, al gelo, alla pioggia[...] cammina senza mai riposarsi”(Zib. 4163). Un percorso straziante, durante il quale l'uomo non può vedere altro che brevi momenti di sollievo, brevi intervalli di una continua sofferenza, che altro non è che assenza di un piacere inarrivabile, mancanza di una felicità impossibile da raggiungere, fallace ideale e vana ambizione degli uomini. Il piacere non è conosciuto dagli uomini nella pratica, “ma solo per ispeculazione (meditazione, nda); è un subbietto speculativo e non reale; un desiderio, non un fatto; un sentimento che l'uomo concepisce col pensiero, e non prova.”(Dialogo di Torquato tasso e del suo genio familiare, Operette morali, 1824). È qui che si delinea la sua Teoria del piacere. L'uomo non può essere felice, non può godere di questo piacere che rappresenta solamente un suo infinito bisogno, un'ambizione a qualcosa di irraggiungibile, perché la felicità è infinita, immortale, sovrumana, e l'uomo aspirerà sempre a questo qualcosa di superiore, inarrivabile per ipotesi. Uno streben (sforzo) dal sapore fichtiano che induce l'uomo a guardare sempre oltre ma, consapevole di non afferrare ora il suo ideale e di non poterlo mai fare, lo costringe a compiangersi della sua misera condizione, del suo oscillare tra un mondo finito che non può concedere null'altro che piaceri reali, finiti e un bisogno infinito che punta sempre più in alto e, non incontrando mai realizzazione, è destinato ad uno sforzo quanto mai vano. Il decorso di questa malattia porta inevitabilmente alla morte. Dopo questo lungo e faticoso viaggio, l'uomo arriva “a un cotal precipizio o un fosso, e quivi inevitabilmente cade” (Zib 4163), e “ov'ei precipitando, il tutto oblia” (Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, 1829-30). Un paesaggio già oscuro si spegne definitivamente, lasciando null'altro che un enorme vuoto, incolmabile anche in vita. Leopardi stesso, in vita, era “un sepolcro ambulante, che porto dentro di me un uomo morto, un cuore sensibilissimo che più non sente” (Zib 4149).
Questo è il giardino leopardiano, questa è l'esistenza di Leopardi. Un vasto ospedale, che vede innumerevoli sofferenze, talvolta leggermente attenuate, ma pur sempre sofferenze. Una lunga malattia, che nasce con l'uomo stesso e che si chiama vita, fortunatamente mortale, che con la sua conclusione, pone fine al dolore, unica costante del lungo percorso intrapreso. Un giardino che diventa un vero e proprio deserto, arido, specchio di un'insensibilità figlia di un'esistenza che ha solo sofferto, e che si è rassegnata al lento decorso della malattia, che tutto ha abbattuto, lasciando un “solido nulla” dilagante, spento. Cenere e sabbia si mescolano, alle pendici del Vesuvio, dove ora tutto è silenzio, tutto è morto, le illusioni sono state estirpate, la felicità non esiste e non è mai esistita, in questa landa desolata. Ma è qui che sorge la ginestra. Dove più nulla cresce, nella desolazione più totale, abbandonata da qualsiasi forma vivente, dove imperversa il vento, dove la lava, la ragione distruttrice è passata più e più volte...rinasce la vita. Dove tutto era terribilmente nero, dove ogni luce aveva esaurito il suo illusorio combustibile, una luce è nata spontanea. È piccola, fragile, ma flessibile e tenace. È il fiore del deserto, è l'uomo che ha accettato la sua umile condizione, che ha più e più volte distrutto tutti i suoi appigli, è l'uomo che non spera più, è l'uomo rassegnato. Ma è. Non è morto, non si è spento. È l'uomo che, abbandonato tutto, abbandona anche la sua ragione, abbandona la riflessione, la filosofia, la poesia, e si pone dinanzi alla Vita, senza aspettarsi nulla. L'uomo che dopo aver spento tutto, apre gli occhi, e scopre di essere egli stesso luce. Il giardino bucolico è stato ribaltato, a creare quel vasto ospedale che è il giardino leopardiano, culla di sofferenze, violenza, vana speranza. Il giardino è stato a sua volta spazzato via dal vento, dal fuoco ed è ridotto a cenere, sabbia, desolazione. E qui si erge, solitaria, piccola, nella sua gloriosa semplicità, la ginestra, il piccolo uomo, che, avendo perso tutto, può costruire la sua casa sul nulla, e il mondo intero gli appartiene (libera citazione di Goethe). E questo è Leopardi. Terribile e aspro filosofo, che si volge al mondo con sguardo critico, capzioso, e attacca con distaccata e inflessibile ferocia l'inconsistenza e caducità della vita e della felicità. Materialista, nichilista, abbatte tutto e si ritrova con un immenso nulla. Dal quale si eleva il poeta, l'uomo che ha sì rinunciato a sperare si ritrova a vivere, suo malgrado, e scoprire che non ha perduto proprio tutto. Appunto, dietro all'immensa oscurità che egli stesso ha gettato, splende una piccola luce, l'uomo stesso, che posa la penna, ammutolisce, si “limita” a vivere, e non ci descrive più quel mondo che gli si è appena dischiuso. E, forse, anch'egli ha potuto godere di un briciolo di felicità in quell'immenso infinito di cui ci rimangono pochi versi, sognanti, e un eterno bisogno.