mercoledì 22 aprile 2009

Qualcuno era comunista

“Qualcuno era comunista perché...la rivoluzione oggi no. Domani forse, ma dopodomani sicuramente no.”
(Qualcuno era comunista – Giorgio Gaber)

Bizzarri personaggi alzano il pugno, ti guardano sorridenti, parlano di potere al popolo, uguaglianza, fratellanza. Sono amici dei poveri, loro. Talmente tanto amici che...li guardano dall'alto al basso dalla loro posizione da borghesi. Ma si riconoscono proletari. Vorrebbero un mondo dove tutti hanno le stesse possibilità. Ma ne hanno molte più di possibilità, loro. E ogni singola cosa che hanno in più deriva dallo sfruttamento di quelli che di cose ne hanno molte meno, molte meno proprio per darle a loro. Però sono amici. Forse solo noi ricchi possiamo essere amici dei poveri, loro non hanno più tanto da darci. La rivoluzione oggi no. No, no. Non siamo pronti. Non sono pronti, gli altri. Perché io lo sarei. Guardatemi: ho il pugno alzato, faccio discorsi comunisti, sorrido a tutti, critico il sistema, ho letto tutto Marx...Domani forse. Perché...sì dai domani si farà. Ma non dipende da me, io sono a posto. Sono gli altri a non essere pronti. Sono talmente a posto che se tutti fossero come me vivremmo in un mondo perfetto, perché io voglio bene a tutti e non tolgo nulla a nessuno. Quasi. Perché adesso sono un po' costretto. Ma è solo perché sono costretto eh, io sono rivoluzionario dentro. Come? Non sono credibile? Perché? Sembro forse borghese? Beh sì lo ammetto, forse sto un po' sopra alla media socioeconomica. Diciamo che ho più possibilità della media. Ma poche eh. In fondo posso considerarmi povero. Perché è dai poveri che parte la rivoluzione, non dai ricchi. I ricchi...sono loro che mangiano veramente i bambini. Loro che sfruttano il terzo mondo. No, le mie scarpe non derivano dallo sfruttamento di qualche bambino nel terzo mondo. Le mie...non è un bambino. È un giovane. È molto giovane, ma non è un bambino. Ma poi sono costretto eh, quali altre scarpe potrei prendere? Sono così comode, belle...però a quel bamb..giovane ci penso, tutte le sere. Penso che gli voglio bene, perché mi ha fatto le scarpe. Io comprandole gli ho dato lavoro. Magari lui di quei soldi se n'è presi ben pochi, ma sempre meglio di niente, e poi io lo penso, gli voglio bene. Non solo a lui. Io mando anche l'euro per la scuola in Uganda. Così quei bambini prendono coscienza di classe e fanno la rivoluzione. Come me. Io ho preso coscienza di classe. Infatti la rivoluzione non la faccio, sto troppo bene così. Certo, uguaglianza, Dio ci ha creati tutti uguali. Ma alcuni un po' più ricchi e altri un po' più poveri. Però ci vogliamo tutti un gran bene.

martedì 21 aprile 2009

il seduttore

Io non voglio compiere una scelta. Anzi. Io voglio scegliere tutto. Se scegliessi qualcosa, se mi fermassi...tutto si quieterebbe, anche ribadendo la stessa scelta ogni volta. Quando ti immergi per il primo attimo in una scelta sei nell'estasi più completa, raggiungi l'amplesso, il culmine dell'essenza stessa del tuo, del suo essere. Ma come può 'durare'? Se anche 'durasse' si perderebbe irrimediabilmente...l'abitudine l'ammazzerebbe. Percorsa cento volte la strada più bella appare niente più di tutte le altre. Non è una questione della strada, fa tutto parte di come vediamo la strada. E, per ogni cosa, dopo un po' l'uomo sostituisce a 'ciò che vede', qualcos'altro, 'ciò che sa che dovrebbe vedere'. La cosa si annebbia, si oscura, sparisce. La cosa più magnifica diventa bella, carina, normale, noiosa, pedante. Come si può non essere spinti verso qualcos'altro? Perché rimanere legati a qualcosa di vecchio, stantio?
“Il loro amore moriva
come quello di tutti
come una cosa normale e ricorrente
perché morire e far morire
è un'antica usanza
che suole aver la gente.”
(Il dilemma – Giorgio Gaber)
il loro amore moriva...una volta raggiunto l'apice è inevitabile il, seppur lento, declino. Ma ci si aggrappa a qualcosa di vecchio, a “parole che ognuno sa a memoria”, senza sapere se neanche più ci si crede veramente...
Il seduttore non si focalizza su un oggetto solo. La contemplazione di un oggetto è destinata a vanificare ogni tenace sforzo di bellezza, col tempo. Il tempo. Bisognerebbe eliminarlo, il tempo. Frantumarlo in ogni singolo istante, spezzare la catena passato-presente-futuro e creare un unico, grande, eterno presente. In questo presente riverberano gli antichi spettri dei ricordi e le aspettative future, ma sono come annebbiate in una dimensione che le vanifica, in quanto lo sguardo è rivolto all'eternità del presente. Un presente nuovo, magico, diverso dopo ogni istante, che muore, vive e rinasce a sé in ogni attimo. Fermarsi...sarebbe rimanere fermi alla morte, non compiere una nuova rinascita. L'unico riferimento è il mio rapportarmi al tutto, l'unico riferimento è il tutto. Carpe diem.
Così tutto muore, tutto rinasce. Sì, il loro amore moriva, ogni giorno. E ogni giorno rinasceva. E...poi?
(buio)

domenica 19 aprile 2009

Alla fine

È incredibile come alla fine di ogni discorso, alla fine di ogni canzone, ogni vita, ogni cosa...si depositi il seme della speranza. Nel corso della vita. Quanti si sono spostati dal nichilismo più totale ad una sorta di teologismo mascherato? Quanti hanno distrutto tutto per poi rinascere, sia pur come un piccolo punto luminoso, una piccola ginestra nel deserto dell'esistenza?
Tanti.
La domanda che molti si pongono è “e se non fosse tutto qui?”. La domanda che altri si pongono è “e se tutto quello che c'è oltre fosse solo una insulsa creazione mentale per giustificare la nostra paura dell'ignoto? O, ancor meglio, del nulla?”
Il nulla più totale, la morte. Abbiamo paura. Proiettiamo quello che è un nostro bisogno nell'immagine distorta di quella che è una realtà che noi stessi contribuiamo a creare, e vediamo speranzosi un punto luminoso in quella che non è altro che una semplice immagine riflessa. Ma allora la luce c'è! Stolto, se credi di vederla. 'Eppure tu esisti, che significa?' Credi forse che ci sia un significato nelle cose? Significato è qualcosa che vi attribuisci tu, a posteriori, non qualcosa di insito nella realtà stessa. L'idea di fine...un'altra categoria dell'intelletto umano applicata alla realtà. La verità è che nessuna di queste esiste nella realtà. La verità è che neanche l'esistenza è qualcosa di insito nella realtà. Neppure la realtà è reale. Sono tutte costruzioni che non hanno niente a che vedere con la vera 'essenza' (un altro termine per definire qualcosa di indefinibile...)...
Come porsi dinanzi a questo? Rifiuto totale di ogni categoria? No, è totalmente impossibile, noi siamo queste categorie, la realtà è quella che ci creiamo, con tutte le cose che vi attribuiamo. Accettazione incondizionata? Neppure, un'immagine così distorta inficia ostinatamente qualsiasi ricerca un minimo approfondita e disincantata delle cose. E se l'amore fosse solo quell'elegante cornice che abbiamo voluto dipingere attorno alla procreazione? Se, se, se...e se dal rifiuto di ogni certezza potesse nascere qualcosa? Dal soloipsismo più totale sorgesse qualcosa? Non sarebbe la solita insulsa creazione mentale? Una delle tante illusioni? Se l'essenza fosse data proprio da queste illusioni? Illusioni...appunto. Niente di reale, ma abbiamo forse bisogno della realtà? Quando una dimensione onirica soddisferebbe assai più facilmente i nostri bisogni...che senso ha scontrarsi col reale? Che senso ha porsi delle domande? Nessuno. Però lo faccio, non si sa mai che qualcuno risponda.

mercoledì 1 aprile 2009

Dialogo sulla scienza

scritto da me e il gruppo 'filo' (io, tommaso, chiara, beatrice, elena 'cosci', filippo) per un concorso di filosofia, sul tema della scienza. Riprende in parte un mio vecchio scritto (non poi così vecchio :-P)

μετα τασ εδωδασ

meta tas edodas (dopo pranzo)

Di questo logos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza.
Eraclito di Efeso

Senza sensibilità nessun oggetto ci sarebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto sarebbe pensato.
I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche.
Immanuel Kant

Non esistono fatti, ma solo interpretazioni.
Friederich Nietzsche

Ci sono cose che l'intelligenza è capace di cercare, ma che, da sola, non troverà mai.
Henry Bergson


Eutidemo, fino ad allora silenzioso, prese la parola. “Tu Eracleo hai affermato che la scienza non ha valore conoscitivo. Ma se la conoscenza non si esaurisce a ciò di cui abbiamo un riscontro assolutamente certo, come la si può allora definire? Se dovessimo fermarci dinanzi a questo primo ostacolo, saremmo costretti a farlo immediatamente, e il nostro processo conoscitivo non avrebbe neppure inizio. Inoltre, certe cose che la scienza assume possono comunque ritenersi valide, non solo dal punto di vista pratico.”
“Bene! Questa è senz'altro una critica costruttiva, e un ottimo spunto di riflessione. Come hai ben notato, io ho detto che la scienza non ha valore conoscitivo, ma non ho definito cosa significhi conoscenza, né perché l'uomo la persegua, né quali possano essere i suoi scopi.”
“È così.”
“Dunque. Etimologicamente la parola 'conoscenza' significa 'apprendere con l'intelletto', creare un sistema di cognizioni acquisite con lo studio e la meditazione, cominciare ad apprendere, a fare proprie delle nozioni, a farsi un'idea del mondo. Conoscere è apprendere, imparare. Tutte queste definizioni, però, non esauriscono a parer mio una così ampia facoltà, un così grandioso bisogno dell'uomo. Perché di bisogno si tratta, è un'esigenza dell'uomo, quella a conoscere, che lo richiama ad espandersi, a migliorarsi, a porsi in una condizione di maggiore consapevolezza, a realizzarsi come persona, a tendere verso un qualcosa che, sebbene appaia incomprensibile, vuole essere raggiunto, compreso, vissuto.
Voglio ora cominciare una digressione, per descrivere da dove possa derivare questo bisogno, da dove provenga la conoscenza, perché forse questo è l'unico modo per risalire al suo significato.”
“Ti ascoltiamo.”
“Partiamo dal principio, dal principio dell'uomo. Durante la gravidanza, l'uomo è tutt'uno con la madre. Il feto non conosce nulla dell'esterno, trova in sé tutto quanto lo possa soddisfare. Esso è solo soggetto in questo momento. Soggetto non ancora affermatosi propriamente come tale, in quanto non conosce null'altro all'infuori di sé: non contrapposto a null'altro, si considera un 'tutto'. Al momento della nascita, però, questa supremazia è destinata a crollare. Uscendo dal ventre della madre, il neonato viene immediatamente a contatto con l'esterno, scopre di non essere più solo, vede condizioni esterne differenti da quelle proprie al suo interno, condizioni che hanno una forte influenza, un forte impatto su di lui. La reazione è una sola: il pianto. Questa scoperta lo porta al dispiacere, alla disperazione. È tra le braccia della madre che ritrova una parte di sé, che colma in parte il suo dispiacere. Il neonato si è visto come soggetto, ma non più come 'tutto', perché ha contrapposto a sé un oggetto, che lo ha spiacevolmente influenzato.
Venendo a contatto con questi oggetti, l'uomo nota come alcuni di essi riescano a procurargli piacere: il nutrimento, il calore della madre, mentre altri gli provochino dispiacere: la fame, il freddo. Il bambino ha instaurato dei rapporti con oggetti esterni, e questa è la sua primaria conoscenza: lo studio dello svolgersi di questi rapporti. In base all'effetto che hanno su di lui, cerca di procurare a sé stesso il piacere e di allontanare il dispiacere. La sua conoscenza si esplica quindi nel comprendere le sue connessioni con il mondo esterno e cercare di trarne beneficio. Questa conoscenza la possiamo definire come 'pratica'. Il bambino è dedito allo studio delle sue relazioni con gli oggetti, l'influenza che questi hanno su di lui, e come poter modificare il rapporto per ottenere un riscontro a lui gradito. Il metodo usato per questa conoscenza è prevalentemente empirico: basato sull'esperienza, se una cosa riesce sgradita non verrà più fatta e la si eviterà.”
“Quindi tu classifichi questa conoscenza come pratica.”
“Esatto, in quanto è finalizzata ad un uso materiale, non è conoscenza 'pura'. Il bambino, crescendo, svilupperà diverse capacità, intrinseche alla natura umana, e di conseguenza elaborerà la sua conoscenza in diverse forme tutte necessarie per la limitata completezza del processo conoscitivo.”
“Ma cos'è questa conoscenza pura? Ce n'è forse bisogno?”
“Presto arriverò anche a quello. Ora riprendo il mio discorso.
La conoscenza pratica è una schematizzazione entro modelli razionali comprensibili all'uomo di quella che è la realtà a lui esterna. È una semplificazione, e rappresenta la realtà, ma non è la realtà, non riprende la sua essenza e il suo svolgimento, ma è solo l'interpretazione a posteriori che l'uomo vi fornisce. La scienza può essere considerata tra le massime espressioni di questo tipo di conoscenza, è il bambino che, evolvendosi, ha elaborato un sistema sempre più efficace e funzionale, migliorandolo di volta in volta. La scienza rappresenta una fase del suo processo conoscitivo, accanto a tante altre, ognuna delle quali si considerava, inquadrata nel suo momento, la più aderente alla realtà e la più valida.
Veniamo ora a presentare, sia pur in maniera minima, quella che io definisco conoscenza 'pura'.
Il bisogno dell'uomo di conoscenza non si ferma a quella pratica. La semplice osservazione della nostra storia ci fa vedere come l'uomo abbia da sempre cercato di andare oltre questa semplice conoscenza pratica. È la questione che ha posto l'uomo in una condizione di insoddisfazione, con questo imperante bisogno di andare oltre. L'arte, la letteratura, l'amore, la filosofia...si riconducono al valore pratico o significano qualcosa di più? Filosofia, φιλοσοφία, è 'amore per il sapere'. Non è sapere per fare, sapere per il potere, è sapere fine a sé stesso, la filosofia non è serva di nessuno. È un modello alternativo, forse esule dalla razionalità stessa, che punta oltre la superficie della realtà. Verso cosa? Talete si è distinto dagli altri uomini perché guardava in alto, verso le stelle. Questo desiderio, 'de-siderum', dalle stelle, tensione verso l'infinito, caratterizza la conoscenza pura. Questo ci può permettere di scostare quel velo di mistero che ancora ricopre la realtà fenomenica, il significato più recondito delle cose. La scienza non è di per sé volta alla praticità, ma è ormai unicamente orientata a questo, “sapere è potere”, si tramuta in tecnica, o, ancor meglio, in conoscenza pratica. Eppure anche la scienza mantiene, nel suo disegno di infinita tensione ad una realtà che non potrà mai descrivere appieno, che non potrà mai cogliere, quel desiderio che spinge l'uomo, attraverso numerosi mezzi, a quell'oltre tanto aspirato e che rimarrà sempre irraggiungibile. Forse è il percorso stesso il suo compimento, ogni singolo istante compiuto in quella direzione è verità, compiutezza. Rimango pur convinto che la scienza non abbia valore conoscitivo. È un modello creato dall'uomo, fallibile e suscettibile di modifiche, è una rappresentazione, sia pur internamente coerente, ma non è e non esaurisce la realtà. Conoscenza è la tensione, in tutte le sue sfaccettature, che passano per arte, letteratura, scienza, dialogo, pensiero, meditazione, riflessione, verso quell'irraggiungibile infinito che da sempre attira l'uomo. Forse vera conoscenza è trascendere tutti questi mezzi per dedicarsi a ciò verso cui essi puntano, che non sarà mai rappresentabile in alcun modo, né dalla più precisa legge scientifica, né dalla più raffinata poesia, andando al di là delle apparenze, cogliendo il nocciolo segreto delle cose.”
“Quindi non neghi la validità della scienza in questo modo.”
“Ancora una volta, voi ciechi sostenitori delle vostre verità cercate sofisticamente di attirare le mie frasi a voi. Non nego il suo valore pratico. Nego il suo valore conoscitivo se essa dovesse ripiegarsi su sé stessa, sulla sola rappresentazione fenomenica, senza cercare di andare oltre, rifacendosi a quell'umana tensione che definisco conoscenza 'pura'. Nessun modello razionale può esaurire questo bisogno, questa tensione conoscitiva, nessuno. Bisogna richiamarsi a qualcos'altro, a qualcosa che esuli dalla praticità e si rivolga unicamente all'uomo. Attorno ad essa si possono sviluppare anche conoscenze pratiche, ma il vero fine è un altro. Il vero fine...non credo di poterlo spiegare attraverso semplici e vuote parole, non credo sia possibile rinchiuderlo entro un modello. Alcuni modelli, però, possono indicarcelo, sia pur da lontano, possono aiutarci a percorrere quel lungo cammino il cui seme è deposto in ogni uomo, e che germoglia soltanto in colui che sceglie di beneficiare di questa illimitata potenzialità. La Filosofia, nucleo della conoscenza pura, riassume in sé quel carattere soggettivo che impedisce all'uomo di diventare semplice ingranaggio nelle mani del sistema, e gli permette di mantenere e salvare la sua umanità.”