Torno a parlare di Leopardi (big leo per gli amici), questa volta per imposizione scolastica, riporto pure qua nell'angolino dove espongono i miei vani pensieri :-P
“Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento.” (Zib. 4175). Ecco il giardino leopardiano: “quasi un vasto ospitale” (ospedale, nda), un luogo di sofferenza, patimenti; ovunque qua e là un fiore deve subire l'attacco di un ape, un albero deve soffrire il cocente calore del sole, le foglie sono martoriate dai numerosi animali. E questa non è altro che l'esistenza. Il cantico delle creature è rovesciato, il giardino bucolico, arcadico, idillico non esiste più, anzi, a ben vederlo, non è mai esistito. Solamente l'uomo lo ha malvisto, ha creduto di avere davanti a sé l'estasi della vita, il piacere dei sensi, l'armonia, la magnificenza della natura. Niente di più sbagliato, ad occhi attenti si vede bene come non celi altro che una necessaria infelicità, una “souffrance” cui sono sottoposti tutti gli esseri, chi più, chi meno. Questa è, appunto, l'esistenza. Un'esistenza che, dietro ad apparenti momenti di felicità, a fugaci immagini che sembrano far trasparire una limpida e chiara luce, non nasconde altro che una grande sofferenza, un lungo percorso fatto di travagliati momenti, inestirpabili tristezze, dilaganti noie. La vita è, innanzitutto, mortale. Ciò significa che, nonostante tutto, nonostante le illusioni, nonostante la fallace felicità cui pensiamo di godere, tutto è destinato a scomparire, a cadere nell'oblio. Non solo questo: la vita è una lunga malattia, mortale. Appena venuto al mondo l'uomo è già irrimediabilmente malato, costretto a “vivere” (quale termine più appropriato?) i gravosi sintomi del malanno che si porta appresso. Leopardi ci dice che la vita è “il viaggio di uno zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso per montagne ertissime, luoghi sommamente aspri, faticosi, difficili, alla neve, al gelo, alla pioggia[...] cammina senza mai riposarsi”(Zib. 4163). Un percorso straziante, durante il quale l'uomo non può vedere altro che brevi momenti di sollievo, brevi intervalli di una continua sofferenza, che altro non è che assenza di un piacere inarrivabile, mancanza di una felicità impossibile da raggiungere, fallace ideale e vana ambizione degli uomini. Il piacere non è conosciuto dagli uomini nella pratica, “ma solo per ispeculazione (meditazione, nda); è un subbietto speculativo e non reale; un desiderio, non un fatto; un sentimento che l'uomo concepisce col pensiero, e non prova.”(Dialogo di Torquato tasso e del suo genio familiare, Operette morali, 1824). È qui che si delinea la sua Teoria del piacere. L'uomo non può essere felice, non può godere di questo piacere che rappresenta solamente un suo infinito bisogno, un'ambizione a qualcosa di irraggiungibile, perché la felicità è infinita, immortale, sovrumana, e l'uomo aspirerà sempre a questo qualcosa di superiore, inarrivabile per ipotesi. Uno streben (sforzo) dal sapore fichtiano che induce l'uomo a guardare sempre oltre ma, consapevole di non afferrare ora il suo ideale e di non poterlo mai fare, lo costringe a compiangersi della sua misera condizione, del suo oscillare tra un mondo finito che non può concedere null'altro che piaceri reali, finiti e un bisogno infinito che punta sempre più in alto e, non incontrando mai realizzazione, è destinato ad uno sforzo quanto mai vano. Il decorso di questa malattia porta inevitabilmente alla morte. Dopo questo lungo e faticoso viaggio, l'uomo arriva “a un cotal precipizio o un fosso, e quivi inevitabilmente cade” (Zib 4163), e “ov'ei precipitando, il tutto oblia” (Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, 1829-30). Un paesaggio già oscuro si spegne definitivamente, lasciando null'altro che un enorme vuoto, incolmabile anche in vita. Leopardi stesso, in vita, era “un sepolcro ambulante, che porto dentro di me un uomo morto, un cuore sensibilissimo che più non sente” (Zib 4149).
Questo è il giardino leopardiano, questa è l'esistenza di Leopardi. Un vasto ospedale, che vede innumerevoli sofferenze, talvolta leggermente attenuate, ma pur sempre sofferenze. Una lunga malattia, che nasce con l'uomo stesso e che si chiama vita, fortunatamente mortale, che con la sua conclusione, pone fine al dolore, unica costante del lungo percorso intrapreso. Un giardino che diventa un vero e proprio deserto, arido, specchio di un'insensibilità figlia di un'esistenza che ha solo sofferto, e che si è rassegnata al lento decorso della malattia, che tutto ha abbattuto, lasciando un “solido nulla” dilagante, spento. Cenere e sabbia si mescolano, alle pendici del Vesuvio, dove ora tutto è silenzio, tutto è morto, le illusioni sono state estirpate, la felicità non esiste e non è mai esistita, in questa landa desolata. Ma è qui che sorge la ginestra. Dove più nulla cresce, nella desolazione più totale, abbandonata da qualsiasi forma vivente, dove imperversa il vento, dove la lava, la ragione distruttrice è passata più e più volte...rinasce la vita. Dove tutto era terribilmente nero, dove ogni luce aveva esaurito il suo illusorio combustibile, una luce è nata spontanea. È piccola, fragile, ma flessibile e tenace. È il fiore del deserto, è l'uomo che ha accettato la sua umile condizione, che ha più e più volte distrutto tutti i suoi appigli, è l'uomo che non spera più, è l'uomo rassegnato. Ma è. Non è morto, non si è spento. È l'uomo che, abbandonato tutto, abbandona anche la sua ragione, abbandona la riflessione, la filosofia, la poesia, e si pone dinanzi alla Vita, senza aspettarsi nulla. L'uomo che dopo aver spento tutto, apre gli occhi, e scopre di essere egli stesso luce. Il giardino bucolico è stato ribaltato, a creare quel vasto ospedale che è il giardino leopardiano, culla di sofferenze, violenza, vana speranza. Il giardino è stato a sua volta spazzato via dal vento, dal fuoco ed è ridotto a cenere, sabbia, desolazione. E qui si erge, solitaria, piccola, nella sua gloriosa semplicità, la ginestra, il piccolo uomo, che, avendo perso tutto, può costruire la sua casa sul nulla, e il mondo intero gli appartiene (libera citazione di Goethe). E questo è Leopardi. Terribile e aspro filosofo, che si volge al mondo con sguardo critico, capzioso, e attacca con distaccata e inflessibile ferocia l'inconsistenza e caducità della vita e della felicità. Materialista, nichilista, abbatte tutto e si ritrova con un immenso nulla. Dal quale si eleva il poeta, l'uomo che ha sì rinunciato a sperare si ritrova a vivere, suo malgrado, e scoprire che non ha perduto proprio tutto. Appunto, dietro all'immensa oscurità che egli stesso ha gettato, splende una piccola luce, l'uomo stesso, che posa la penna, ammutolisce, si “limita” a vivere, e non ci descrive più quel mondo che gli si è appena dischiuso. E, forse, anch'egli ha potuto godere di un briciolo di felicità in quell'immenso infinito di cui ci rimangono pochi versi, sognanti, e un eterno bisogno.
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