Ne approfitto per pubblicare una piccola analisi che mi è venuta in mente, studiando leopardi a scuola. Buona lettura! XD
Leopardi, figlio e autore di infinito, di poesia, di filosofia, autore di un pensiero unico quanto emblematico, misterioso, incerto e assoluto. Il suo pensiero si snoda attraverso varie tappe, si evolve, ma di queste poche rimangono ben impresse nella nostra mente, nel ricordo che quasi tutti abbiamo di lui. Il sognatore, rivolto all'infinito, ma piegato verso un triste e infelice mondo che lo opprime, una natura matrigna verso gli uomini, un insieme di inconsistenti e vane illusioni. E, dietro e davanti a tutto questo, il buio, il pessimismo, prima solo storico poi cosmico, che avvolge tutto il mondo, suo e dell'umanità intera. "Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male" (Zib., 4174). In questo dunque si esaurisce la natura di Leopardi? A voler ascoltare solo le sue fredde parole di filosofo, si. Eppure, forse, la sua personalità e natura non si riduce solo a questo. Egli stesso si definiva “poeta” oltre che filosofo.
Il Leopardi filosofo è forse il più noto, quello di cui più si dibatte e quello meglio studiato a scuola; ma, soprattutto, quello di cui abbiamo più scritti, quello che più voleva esternare il suo pensiero e consegnarlo alla analisi sua e dei lettori. Con la sua conversione “dal bello al vero”, avvenuta ad appena vent'anni, abbandona le illusioni giovanili per approdare ad una nuova visione della realtà: essa viene vista con occhio freddamente filosofico, materialista e sensista. Col passare degli anni questa visione andrà ad oscurare e svalutare sempre più il valore delle illusioni, che prima pensava potessero portare gli uomini a vivere un piccolo attimo di eternità, ad illuderli che si potesse raggiungere la vera felicità, relegandole al ruolo di vane ed infantili immagini portatrici solo di un inesaudito bisogno. La sua teoria del piacere ci spiega come per l'uomo sia impossibile raggiungere il piacere, la vera felicità: l'uomo tende per natura ad un piacere infinito e la particolarità del mondo reale fa sì che niente possa, per qualità e quantità, soddisfare questo bisogno dell'uomo, che tenderà per tutta la vita a questo irraggiungibile piacere. E l'assenza di questo lo porterà, necessariamente, a vedere dappertutto il male.
Leopardi non è, tuttavia, solo questo. Al Leopardi filosofo si oppone il Leopardi poeta. “All'uomo sensibile e immaginoso […] che viva sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi” (Zib., 4418). Natura doppia degli oggetti, natura doppia di colui che li osserva. Al materialismo si oppone la riflessione, l'immaginazione. Alla visione delle realtà, Leopardi si ripiega in sé stesso e riflette, immagina, spalanca il cuore e guarda oltre “Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo” (“L'Infinito”, Piccoli idilli). Non è dunque solo materialismo, questo infinito è qualcosa che va oltre la realtà, oltre la materia, oltre i sensi, e questo è ciò a cui si rivolge, ciò che raggiunge, ciò in cui “naufraga dolcemente”. Il poeta è vago, abbandona la sofisticata, fulgida e chiara critica filosofica per sconfinare in una metafisica incerta e indescrivibile, ma quantomai tangibile, chiara, accecante, avvolgente.
Entrambe queste facce si riuniscono, descrivono ma non esauriscono il Leopardi Uomo. L'uomo in questione è ciò che sta dietro alla filosofia e alla poesia, ma allo stesso tempo ciò che va oltre, ed è colui che non ci ha lasciato nulla di scritto, né critiche filosofiche, né poesie, colui che si limitava a vivere, o, ancor meglio, non si limitava a scrivere o a “pensare alla vita”, ma si apriva al valore della stessa. Seguendo il percorso di vita che lui stesso ci ha indicato, passa da una fase giovanile, fatta di illusioni, felicità e bellezza, ad una filosofica, dove si evolverà in un pessimismo sempre più cosmico e tremendo. Da qui però emerge un Leopardi che non è ancora rassegnato totalmente: il Poeta. La poesia è il mezzo per evadere dalla sterile analisi filosofica che lo porta a vedere il male. La poesia permette di riflettere, di rivolgere a sé stessi le domande, di sconfinare dall'ambito della “piccola” ragione per andare oltre. “Trista quella vita che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione” (Zib. 4418, anno 1828). Dopo aver ripudiato le illusioni, dopo aver deciso che non deve illudersi, deve rivolgersi al vero, lo fa: guarda la realtà e, a questa visione, incomincia il suo viaggio. Leopardi non solo filosofo, dunque, ma neanche solo poeta. L'uomo parte dalla fredda analisi filosofica, per poi sentire il “bisogno” di infinito, immaginarlo a partire dalla visione della realtà, fino a coglierlo, a viverlo, “e mi sovvien l'eterno”. E qui sta il passo fondamentale: Leopardi abbandona la penna e “naufraga” in questa immensità. Abbandona la penna, vista l'ineffabilità dell'eterno. Ormai non ha più importanza descrivere tutto ciò. Nella prima fase, quella filosofica, Leopardi non si staccava dalla penna ed esternava tutte le sue idee, tutte le sue critiche. Nella fase poetica egli è vago, assai loquace. Nell'ultima fase è muto, sta vivendo l'eterno, non ha più importanza parlare, non ha più bisogno di sfogarsi, è avvolto nel suo infinito, è felice...
Può parere anacronistico quanto detto, soprattutto in riferimento a “L'Infinito”, scritto nel 1819, durante la sua prima conversione filosofica, quindi prima del suo pessimismo cosmico, quando ancora egli si illudeva beatamente, giovane sognatore, aspirante e desideroso di bellezza.
Non solo: molte poesie e brani vari del Leopardi degli anni '20 fanno continuo riferimento a questa sua indole, al suo negativismo imperante. “Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male[...]” è una frase del 1826, nel pieno della sua fase pessimista. Un poeta “filosofico” è quello di questi anni, rassegnato, pessimista, negativo: “O natura, o natura, / perché non rendi quel che prometti allor? Perché di tanto / inganni i figli tuoi?” (“A Silvia, Grandi Idilli, 1828). Eppure tra i due c'è una grande differenza. La prima frase è un'affermazione (“Tutto è male”), il secondo testo è una domanda (“Perché?”). Sterile retorica? Assai probabile, però quest'uomo, pensatore, colto e ponderato, non lasciava nulla al caso. Che il poeta non fosse ancora del tutto sopito? “Considerare l'ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio, immaginarsi il numero dei mondi infinito e l'universo infinito e sentire che l'animo e il desiderio nostro sarebbe ancor più grande che sì fatto universo, pare a me maggior segno di grandezza e di nobiltà che si vegga nella natura umana” (Pensiero LXVIII, scritto tra il 1831 e il 1835). Lo scrittore esternava i suoi pensieri, l'uomo li viveva. E come ci indicano le sue stesse frasi, non era soddisfatto dalla realtà, cercava di rivolgersi a qualcosa di più grande, dal più grande valore. Questo è un processo ineffabile, davanti al quale Leopardi getta la penna, ammutolisce e, semplicemente, vive.
Tutti noi viviamo ampi periodi di tristezza e sconforto, e possiamo ben vedere come siano questi quelli in cui più ci è facile esternare le nostre sensazioni. La funzione della filosofia era questa: esternare il suo pessimismo. E possiamo anche ben dire come la nostra natura, la nostra personalità non si riducano a quei soli momenti di sconforto. La felicità trova piena realizzazione nella vita, nel suo essere vissuta, la tristezza da una astensione dalla vita, da un troppo pensare alla vita stessa, da un troppo uso della ragione “La natura è grande, la ragione è piccola” (Zibaldone, 14).La tensione alla felicità produceva in Leopardi la poesia, il sogno, l'immaginazione che nei suoi pensieri torna sempre, prepotentemente, figlia di un bisogno mai sopito. E, a questa tensione, segue una fugace e indescrivibile visione dell'eterno. L'immaginazione, il desiderio fanno da vero sfondo in lui, ancora dietro al pessimismo, che era solo una delle tante facce di Leopardi, solo la più prolifica, quella che ci ha lasciato più pensieri, i quali erano senza dubbio i più diretti, assoluti e convincenti. La poetica è vaga e di essa ci rimane molto meno.
Chiudendo gli occhi, solgo immaginarmi il Leopardi uomo così: con i piedi ancorati a terra, alla sua solida base filosofica e lo sguardo rivolto verso terra. Un uomo che si astiene dal vivere, dal cogliere il mistico e significato della vita, che sente il continuo e incessante bisogno di scrivere, di sfogare questo inesaudito bisogno che pulsa costante in lui. Però pian piano alza lo sguardo, vede il suo ermo colle e la sua siepe, ma non si ferma: la filosofia rimane a terra, ma la poesia si alza ed è il dito che indica il cielo sopra di lui, il suo infinito. Però non si ferma a questo dito, va oltre, l'uomo si alza in volo, ammutolisce il poeta e si gode il suo infinito, la sua eternità. Non è più né filosofo, né poeta, forse abbandona pure il suo essere semplice uomo, per divenire tutt'uno con il suo immenso e sterminato infinito.
L'uomo, colui che viveva il suo infinito, colui che immaginava, colui che coglieva l'eterno, era muto. Di lui non ci rimane nulla, se non quel dito (la poesia) che lo indica da lontano. Vogliamo ridurre l'essenza di un uomo solamente a ciò che ci ha detto? O provare a guardare non quel dito ma ciò che indica, abbandonare la superficialità e provare a cogliere ciò che lui stesso ci indicava, non solo per sé stesso, ma anche per noi.
Ciascuno vede nelle opere ciò che vuole, ciò che crede, vi rispecchia le sue idee. “Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso.” diceva, non a torto Proust.
Certo è che Leopardi,dietro al pessimismo,celava un desiderio mai sopito di infinito, di eterno, di felicità. Questo desiderio si realizzava nel suo essere uomo, non filosofo o poeta, ma, molto più semplicemente, piccolo uomo, nulla a confronto del tanto decantato e ammirato poeta, ma essere umano, felice, eterno nella sua vita, infinito nel suo valore, immenso nel suo pensiero.
Certo è che Leopardi, per me, era un inguaribile ottimista.
lunedì 10 novembre 2008
Leopardi, inguaribile ottimista
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2 commenti:
davvero un bel lavoro.Mi è piaciuto molto.grazie.
grazie.
questa lettura mi ha dato molto.
complimenti!
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