venerdì 28 novembre 2008

Epopea della banalità

Pensate a Voi davanti ad un'altra persona. Pensate a come vi comportate davanti ad essa. Dovete rispettare certe regole, dovete comunicare con effetto certe cose, dovete convincerla della bontà della vostra opinione. Dovete impressionarla. Pensate come davanti a questa persona abbiate completamente perso la vostra libertà. Non siete più voi, non potete più essere voi. Davanti al mondo intero non possiamo più permetterci di essere noi, non possiamo più essere semplici portavoce spensierati e liberi di noi stessi. Ci è stato inculcato l'ideale dell'approvazione, del rispetto. Davanti a ciascuna persona non vediamo l'essere umano che è in lei, ma solamente il bene che ci può portare. Ecco, davanti a queste non siamo liberi. Non siamo liberi di dire o essere ciò che vogliamo, dobbiamo ponderare le nostre frasi, i nostri comportamenti, i nostri sguardi. Per ricevere un bene che non è nemmeno tale, quanto una soddisfazione di un bisogno più imposto che sentito. Temi banali, lo so, ma inequivocabilmente veri e assolutamente inevitabili.
L'illusione della libertà è ben peggiore della schiavitù stessa. In cosa la libertà è preferibile alla schiavitù? La schiavitù è senz'altro più comoda, piacevole, ci fa sentire individui accettati di una totalità di cui non possiamo fare a meno. Il bisogno dell'altro sorge nella quotidianità, nei bisogni materiali impostici dalla natura, ai quali l'uomo singolo difficilmente riesce a sopperire. Questo bisogno si tinge di ipocrisia, per mascherare l'egoismo con cui ogni uomo vive questo reciproco bisogno, cercando di prevalere sull'altro in una hobbesiana lotta tra uomini. Ciò che differenzia uomini e bestie è che, mentre le bestie lottano apertamente contendendosi cibo, terreni e femmine, gli uomini lo fanno subdolamente, forti della loro capacità, unica, di mentire. Siamo legati ad altri uomini da questo ferreo patto, dietro al quale aleggiano non solo bisogno reciproco e necessità, ma egoismo ed ipocrisia. Cosa significa allora essere liberi? È possibile la libertà? Essere liberi significa, davanti ad un altro essere umano, vedere quell'essere umano indipendentemente da noi e dalle nostre necessità. È possibile essere liberi se non ad altri ma a noi stessi deleghiamo il soddisfacimento dei nostri bisogni. Sul piano materiale è forse impossibile esserlo, ma, spostandoci su quello spirituale/psicologico potremmo tendere ad una sempre maggiore libertà. Libertà che non si esplica nel ripudiare l'altro, ma nel ripudiare il nostro bisogno dell'altro, che inevitabilmente ci porterà ad oscurare il suo valore e le molteplici sfumature della sua persona, per godere in maniera più piena di noi stessi, sempre soddisfatti, e dell'altro, che può ben aggiungere sapore alla nostra soddisfazione. Forse non è possibile esserlo, ma non è impossibile aspirare ad esserlo. È preferibile?
Dunque, è innegabile come quasi sempre attribuiamo a cause esterne, ad altri, la nostra infelicità. Per un motivo o per un altro, la nostra infelicità va sempre a ricadere fuori da noi, da eventi che ci vedono vittime passive e impotenti. No, non è così. Se stiamo male è unicamente colpa nostra. Il bisogno non ci è dato da altri, ma ce lo siamo imposto e, pur di non ammettere di esserci sbagliati, ci scagliamo contro le presunte cause delle infelici conseguenze. Questa libertà ci porta però ad una enorme e difficile responsabilità, ci porta a dover lottare contro noi stessi, contro i nostri limiti e le nostre assurde imposizioni per scampare al pericolo dell'insoddisfazione. È per questo che è molto più facile attribuire a cause esterne i nostri problemi, in modo da deresponsabilizzarci e poter ricoprire agevolmente il ruolo di vittime. Uscire da questo è quasi impossibile e, forse, non è nemmeno ciò che vogliamo. A che serve allora tutto questo discorso? Consapevolezza. Ciò che può farci sentire liberi di scegliere, di abbattere le nostre credenze per scegliere una realtà, forse molto simile alla precedente, ma senz'altro più nostra. Poter attribuire a noi stessi le cause dei nostri mali. Però, una volta esaminati secondo quest'ottica, i mali cessano di creare quel fermo e vittimistico dispiacere, quella avvolgente e imperturbabile infelicità. Non è questa la via insindacabilmente giusta, ma senza scelta non possono nemmeno esistere vie o sentieri da percorrere. È forse una via tra le tante, preferibile per alcuni, tremenda per altri, ma, almeno, un sentiero su cui camminare, non un fiume da cui farsi trasportare, senza il minimo potere di reagire.

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