domenica 30 novembre 2008

Ancora scuola

Torniamo a parlare di un argomento che a quanto pare sta a cuore a tanti, tanti di noi. Non si tratta tanto del decreto gelmini in sé, quanto dell'intera politica intrapresa dai vari governi, nell'ambito dell'istruzione, da parecchi anni a questa parte.
Sono più di 20 anni che i vari ministri dell'istruzione che si succedono parlano di riforme della scuola, di rinnovamento, di cambiamento radicale. E in questi vent'anni ben poco è cambiato. Quello che sembra accadere ora, con il decreto appena approvato e le probabili future azioni che verranno intraprese dal ministero dell'istruzione, può parere tremendo, una svolta verso il peggio, ma non sono dell'idea che possa veramente cambiare le cose. A gran voce si condannano i vari, singoli punti proposti, ci si scaglia contro il maestro unico, i tagli dei fondi, i voti in condotta che fanno media, la probabile privatizzazione delle università. Tutte cose senza alcun dubbio opinabili, e sulle quali anche io ho un giudizio decisamente negativo. Però tutta questa confusione non fa che allontanarci da quello che è il vero problema. Tutto questo discutere, aizzare folle, dibattere, urlare e manifestare, ci fa concentrare su pochi punti che sì, qualcosa significano, ma non sono il vero problema. Se una cosa è malata nel profondo, non saranno pochi accidenti lievi e momentanei a rendere tanto più critica la situazione. Anzi, la confusione che si agita, oltre a peggiorare lo stato delle cose, è solo un mucchio di energia sprecata. Come al solito sprecata verso inutili problemi di facciata, quando le pericolanti fondamenta non vengono minimamente prese in considerazione.
Il vero problema non sono le riforme che il ministro si propone di intraprendere. Volendo aprire gli occhi, il problema si manifesta apertamente e chiaramente a tutti: siamo noi.
La scuola, così come lo stato, non la fanno poche persone sedute in parlamento, ma la fanno gli studenti, i professori, le famiglie degli studenti e dei professori, i bidelli, amici, parenti e familiari di persone coinvolte...in breve: tutti. Molti, moltissimi studenti non hanno alcun reale interesse a studiare, e lo si evince chiaramente dal loro comportamento, dal fatto che non dedichino allo studio, al sapere e alla cultura che il tempo minimamente indispensabile per sopravvivere e non farsi bocciare, dal fatto che vedano questo tempo come sprecato. E queste persone ora sono con ogni probabilità là, in piazza, a manifestare e urlare a gran voce “lasciateci studiare”. Quando non ne hanno mai avuto il minimo interesse e mai l'avranno, solo ora si sentono privati di un irrevocabile diritto (del quale nessuno li priverà), e per non sentirsi parte del “malvagio” sistema, con tutto ciò che comporta, si schierano con le forze del presunto bene, che a tutti porterà gioia, felicità e studio (al quale comunque mai si interesseranno).
Il problema sono i professori che non hanno alcun interesse a insegnare, ai quali nulla importa dei loro studenti. Questi professori c'erano prima del decreto e ci saranno dopo. Il problema sono tutte le persone che, corrotte esse stesse fino al midollo, criticano a gran voce tutto ciò che gli scorre accanto, senza pensare minimamente di poter essere un minimo sbagliate anche loro.
Il problema sono coloro che pretendono maggiori investimenti sui singoli studenti quando essi stessi rappresentano soldi sprecati dallo stato per garantire loro il diritto allo “studio” del quale però scelgono volontariamente di non beneficiare.
In sostanza, il problema sono tutte le persone che criticano questi punti superficiali e le azioni intraprese dai vari governi senza pensare che se la scuola è così è per colpa di tutti quelli che la compongono, che contribuiscono a peggiorarla, che vanificano le poche buone azioni intraprese da qualche raro spirito che ancora vuol fare qualcosa.
Pensate che se tutti gli studenti e i professori scesi in piazza si comportassero come dicono che debbano comportarsi tutti gli altri la scuola sarebbe nelle condizioni in cui si trova? No, decisamente no. Se la scuola si trova in queste condizioni è perché ciascuno, nel suo piccolo, contribuisce a renderla un pochino peggiore. Si, sto generalizzando. Esistono persone che operano per migliorarla, come esistono persone che la peggiorano in maniera più evidente delle altre, e da questo grande equilibrio ne emerge una situazione decisamente penosa.
È per questo che una riforma non può cambiare le cose più di tanto: può solamente operare su elementi esteriori e decorativi, di valore non indispensabile. Le fondamenta della scuola siamo noi, se ad essere sbagliati siamo noi la situazione rimarrà penosa in ogni caso, se fossimo giusti non sarebbero pochi cambiamenti di poco conto a pregiudicare il nostro valore e ad impensierirci, non sortirebbero comunque nessun effetto.
Il motivo per cui ci si scaglia tanto verso questo decreto è proprio il fatto che ad essere sbagliati siamo noi. È uno dei meccanismi più usuali e banali dell'uomo. Quando c'è qualcosa che non va è estremamente difficile assumersi le proprie responsabilità e cercare di cambiare le cose, è molto più facile creare confusione e gettare la colpa ad altri, pretendendo che siano essi a dovervi rimediare.
Dovremmo quindi smettere di manifestare e accettare quello che ci viene imposto?
No, non dico questo. Dico solo che, accanto alle manifestazioni, dovremmo migliorare noi stessi, le persone che ci stanno attorno e l'ambiente che ci circonda. Non sarà un decreto a cambiare la scuola. Ma, tutti gli studenti, tutti i professori e tutte le persone che ne fanno parte possono veramente cambiarla.

venerdì 28 novembre 2008

Epopea della banalità

Pensate a Voi davanti ad un'altra persona. Pensate a come vi comportate davanti ad essa. Dovete rispettare certe regole, dovete comunicare con effetto certe cose, dovete convincerla della bontà della vostra opinione. Dovete impressionarla. Pensate come davanti a questa persona abbiate completamente perso la vostra libertà. Non siete più voi, non potete più essere voi. Davanti al mondo intero non possiamo più permetterci di essere noi, non possiamo più essere semplici portavoce spensierati e liberi di noi stessi. Ci è stato inculcato l'ideale dell'approvazione, del rispetto. Davanti a ciascuna persona non vediamo l'essere umano che è in lei, ma solamente il bene che ci può portare. Ecco, davanti a queste non siamo liberi. Non siamo liberi di dire o essere ciò che vogliamo, dobbiamo ponderare le nostre frasi, i nostri comportamenti, i nostri sguardi. Per ricevere un bene che non è nemmeno tale, quanto una soddisfazione di un bisogno più imposto che sentito. Temi banali, lo so, ma inequivocabilmente veri e assolutamente inevitabili.
L'illusione della libertà è ben peggiore della schiavitù stessa. In cosa la libertà è preferibile alla schiavitù? La schiavitù è senz'altro più comoda, piacevole, ci fa sentire individui accettati di una totalità di cui non possiamo fare a meno. Il bisogno dell'altro sorge nella quotidianità, nei bisogni materiali impostici dalla natura, ai quali l'uomo singolo difficilmente riesce a sopperire. Questo bisogno si tinge di ipocrisia, per mascherare l'egoismo con cui ogni uomo vive questo reciproco bisogno, cercando di prevalere sull'altro in una hobbesiana lotta tra uomini. Ciò che differenzia uomini e bestie è che, mentre le bestie lottano apertamente contendendosi cibo, terreni e femmine, gli uomini lo fanno subdolamente, forti della loro capacità, unica, di mentire. Siamo legati ad altri uomini da questo ferreo patto, dietro al quale aleggiano non solo bisogno reciproco e necessità, ma egoismo ed ipocrisia. Cosa significa allora essere liberi? È possibile la libertà? Essere liberi significa, davanti ad un altro essere umano, vedere quell'essere umano indipendentemente da noi e dalle nostre necessità. È possibile essere liberi se non ad altri ma a noi stessi deleghiamo il soddisfacimento dei nostri bisogni. Sul piano materiale è forse impossibile esserlo, ma, spostandoci su quello spirituale/psicologico potremmo tendere ad una sempre maggiore libertà. Libertà che non si esplica nel ripudiare l'altro, ma nel ripudiare il nostro bisogno dell'altro, che inevitabilmente ci porterà ad oscurare il suo valore e le molteplici sfumature della sua persona, per godere in maniera più piena di noi stessi, sempre soddisfatti, e dell'altro, che può ben aggiungere sapore alla nostra soddisfazione. Forse non è possibile esserlo, ma non è impossibile aspirare ad esserlo. È preferibile?
Dunque, è innegabile come quasi sempre attribuiamo a cause esterne, ad altri, la nostra infelicità. Per un motivo o per un altro, la nostra infelicità va sempre a ricadere fuori da noi, da eventi che ci vedono vittime passive e impotenti. No, non è così. Se stiamo male è unicamente colpa nostra. Il bisogno non ci è dato da altri, ma ce lo siamo imposto e, pur di non ammettere di esserci sbagliati, ci scagliamo contro le presunte cause delle infelici conseguenze. Questa libertà ci porta però ad una enorme e difficile responsabilità, ci porta a dover lottare contro noi stessi, contro i nostri limiti e le nostre assurde imposizioni per scampare al pericolo dell'insoddisfazione. È per questo che è molto più facile attribuire a cause esterne i nostri problemi, in modo da deresponsabilizzarci e poter ricoprire agevolmente il ruolo di vittime. Uscire da questo è quasi impossibile e, forse, non è nemmeno ciò che vogliamo. A che serve allora tutto questo discorso? Consapevolezza. Ciò che può farci sentire liberi di scegliere, di abbattere le nostre credenze per scegliere una realtà, forse molto simile alla precedente, ma senz'altro più nostra. Poter attribuire a noi stessi le cause dei nostri mali. Però, una volta esaminati secondo quest'ottica, i mali cessano di creare quel fermo e vittimistico dispiacere, quella avvolgente e imperturbabile infelicità. Non è questa la via insindacabilmente giusta, ma senza scelta non possono nemmeno esistere vie o sentieri da percorrere. È forse una via tra le tante, preferibile per alcuni, tremenda per altri, ma, almeno, un sentiero su cui camminare, non un fiume da cui farsi trasportare, senza il minimo potere di reagire.

domenica 23 novembre 2008

Yes we can...pffffft

Tutti gioiscono! Ha vinto Obama! Il suo slogan “yes we can” è diventato il motto di una moltitudine di persone che è arrivato a crederlo: si, possiamo. Possiamo cambiare. Possiamo cambiare il mondo, possiamo migliorare l'economia, possiamo portare giustizia. Per carità, lungi da me criticare questo messaggio di speranza, che in parte condivido e di cui mi sento anche partecipe.
Però non è un singolo personaggio a poter cambiare le cose.
Tantomeno se questo personaggio non ha effettivamente il potere di cambiarle.
Ci sono due importanti considerazioni da fare: un singolo uomo non ha il potere di cambiare il sistema, un uomo che vuole rovesciare il sistema non diventerà mai e poi mai il presidente degli stati uniti d'america.

Il presidente degli usa non ha il potere di cambiare effettivamente le cose. "Nel consiglio di governo dobbiamo stare attenti all'acquisizione di una influenza illegittima, voluta o meno, da parte del complesso militar-industriale. Il rischio di uno sviluppo disastroso di un potere usurpato esiste e continuerà. Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa unione minacci le nostre libertà o il processo della democrazia." disse il presidente Eisenhower nel suo discorso d'addio alla carica presidenziale nel 1961. Tralasciando il discorso un po' fantasioso di oscuri e loschi figuri che dietro le quinte manovrano il mondo (il complottismo mi ha sempre dato un po' sui nervi), limitiamoci ad osservare come stanno le cose, sul palcoscenico.
Obama ha vinto le elezioni, con stragrande maggioranza. Ha convinto il popolo facendo leva sul bisogno di cambiamento, sul bisogno di una svolta, sulla necessità di aiutare maggiormente la popolazione (gli strati più bassi soprattutto). Può un uomo che il sistema politico americano ha accettato poter cambiare realmente le cose? No. Se quell'uomo sta lassù, ora, è perché fa comodo che stia lassù, perché ha ricevuto il consenso non solo della popolazione, ma del mondo politico e soprattutto finanziario, quello che detiene il vero potere negli stati uniti e nel mondo intero. Basta guardare chi ha finanziato la sua campagna elettorale: 1.662.280 dollari ricevuti dai colossi farmaceutici, e quasi 50 milioni ricevuti dal comparto salute e assicurazioni. Moltissimi americani richiedono a gran voce un sistema sanitario accessibile e gratuito, alla portata di tutti, soprattutto di quegli oltre 40 milioni di americani che, non potendoselo permettere, non ne beneficiano affatto, non hanno alcuna assistenza medica. Come si può pensare che un uomo che vuole rovesciare questo sistema venga dallo stesso finanziato? Quei 50 milioni di dollari sono stati investiti, con l'intento di riceverne un lauto tornaconto.
Il presidente degli stati uniti d'america ha moltissimi vincoli, non critico il personaggio in sé, ma chi va a coprire quel ruolo è innanzitutto voluto da tutti gli organi politicamente influenti, e qui parlo non del popolo, ma delle multinazionali, dei colossi farmaceutici, petroliferi, assicurativi, delle banche. Lo stesso Obama vuole una maggiore presenza militare in Afghanistan. Così non si combatte il terrorismo, si incita all'odio, si fomentano gli aspri conflitti che sussistono tra il mondo occidentale e quello cosiddetto “incivile”, barbarico quasi.
E, oltre tutto questo, un singolo uomo non può cambiare le cose. È tutto il mondo occidentale a marciare sopra questo sistema, a goderne i frutti, a beneficiare dello sfruttamento dell'80% della popolazione mondiale. Per cambiare realmente le cose non serve una riforma dall'alto, non serve una rivoluzione politica o altro. Per sperare di cambiare realmente le cose dovrebbero aprire gli occhi 6 miliardi di persone. E io la vedo dura, decisamente dura.

sabato 22 novembre 2008

Siamo noi quelli evoluti...

http://www.lastampa.it/lazampa/girata.asp?ID_blog=164&ID_articolo=844&ID_sezione=339&sezione=News

LOL!
Cioè si può condannare un uomo a 3 mesi per aver fatto morire di fame il gatto?
Magari se li merita anche, ma fare una cosa del genere in un sistema come il nostro è da ipocriti, ottusi, ignoranti e beoti. Ma non siamo noi che ammazziamo per vivere tutti i giorni milioni e milioni di animali? Quel gatto vale di più? Secondo quale criterio?
Oggi camminavo per la città e mi sono fermato davanti ad una vetrina di un negozio di animali. C'erano dei cuccioli di cane, in gabbie minuscole, davanti alla vetrata. Erano in vendita. In una gabbia c'erano 3 cuccioli, giocavano tra loro, per quanto lo spazio gli permetteva. Nella gabbia a fianco ce n'era uno solo. Non poteva neanche giocare, poteva solamente guardare gli altri con invidia, e guardare me chiedendomi perché stava lì. Perché stava lì? E noi saremmo quelli più evoluti...come si può anche solo pensare di VENDERE un essere vivente? Siamo arrivati a considerare la natura poco più che un impedimento, qualcosa da manipolare, controllare, sfruttare a tutti i costi, qualcosa da cui trarre profitto e divertimento. La natura stessa che ci ha creato. È vero, il più forte mangia il più debole, è anche questa natura, ma lo fa per sopravvivenza! E quel cane probabilmente è ancora lì, neanche più in mostra, forse addormentato, forse sta sognando anche lui di poter giocare e correre, ma domani si sveglierà sempre lì. E siamo noi quelli “evoluti”...

mercoledì 19 novembre 2008

Dopo

E così hanno voluto crede che ci fosse qualcosa dopo la morte. E perché non creare un mondo perfetto? Saranno costretti ad adorarlo, il paradiso, non potranno fare a meno di esso.
Vuoi credere che DOPO non ci sia nulla, il vuoto assoluto? No, non si può.
Vuoi credere che ci sia l'ignoto? Spaventa troppo, e per qualunque cosa di ignoto è impossibile non creare congetture.
Plasmiamo un mondo perfetto, è NOSTRO! Possiamo crearlo come ci pare! Modificarlo nel corso degli anni, creare e cancellare stanzette (“no! Il limbo non c'è più! PUF!”).
E tutti voi che ci ascoltate:
TEMETE! Nel nostro mondo ci entra solo chi vogliamo noi!

lunedì 17 novembre 2008

La canzone del bambino nel vento (Auschwitz) - Memoria

Nomadi – La canzone del bambino nel vento (Auschwitz)

Son morto con altri cento,
son morto ch'ero bambino:
passato per il camino,
e adesso sono nel vento.
Ad Auschwitz c'era la neve:
il fumo saliva lento
nel freddo giorno d'inverno
e adesso sono nel vento.
Ad Auschwitz tante persone,
ma un solo grande silenzio;
è strano: non riesco ancora
a sorridere qui nel vento.
Io chiedo come può l'uomo
uccidere un suo fratello,
eppure siamo a milioni
in polvere qui nel vento.
Ancora tuona il cannone,
ancora non è contento
di sangue la belva umana,
e ancora ci porta il vento.
Io chiedo quando sarà
che l'uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare,
e il vento si poserà

Oggi ho visto un documentario (l'ennesimo) su Auschwitz, sui campi di concentramento, sulla Shoah.
Questo era un po' diverso però. A parlare erano degli anziani, ebrei, che queste cose le hanno vissute. Non era un film, non era pieno di effetti speciali e trucchetti cinematografici, no. C'erano solo loro, le loro parole, i loro sguardi e sullo sfondo Auschwitz, ora solamente un insieme di decrepiti edifici e un grande prato verde con qualche albero e fiore sparso.
Beh...
Come può l'uomo uccidere un suo fratello? Come può, senza conoscerlo, senza sapere nulla di lui, uccidere una persona in tutto e per tutto uguale, probabilmente con gli stessi affetti, le stesse emozioni, le stesse ansie, angosce e paure?
Non lo so.
Eppure la storia ce lo insegna, il presente ce lo insegna, il futuro non ci prospetta qualcosa di migliore.
Bestie erano diventate, prive di qualsivoglia briciolo di umanità. Deve avere un impatto psicologico tremendo. Privati di aspetto, vestiti, nome, personalità, lavoro, amici, famiglia. Ridotti a semplici automi, meno che bestie. Spaventoso.
Commovente era il film. Mi hanno toccato soprattutto tre testimonianze.
Il primo raccontava il suo incontro con la madre, appena entrato nel campo. La corsa per abbracciarla, le poche parole scambiate, mentre tuonavano le parole dei tedeschi, gli sguardi impauriti ma sollevati dalla vista di un viso familiare. Il suo racconto si interrompe, è arrivato al saluto con la madre. “Fu l'ultima volta che la vidi”. E quello sguardo mi ha trapassato il cuore, mi ha fatto crollare tutte le certezze, mi ha steso.
Il secondo aveva un compito tremendo. Doveva raccogliere i cadaveri dalle camere a gas, ripulirli di vestiti, capelli e oggetti di “valore” e portarli via. Aveva una voce monotona, fredda, distaccata. A fare quel lavoro non era un uomo, non era “più” un uomo.
La terza...ha detto una delle cose più terribili, la più terribile forse. “Non sarei mai dovuta uscire da Auschwitz”. Ha perso la sua umanità, la sua vita, la sua speranza. Ha abbandonato sé stessa e tutto ciò a cui poteva legarsi, ad Auschwitz.
Il film si chiama “Memoria”, è del 1997. Come ha ricordato il professore che ha organizzato la proiezione, molti di questi testimoni sono morti, e gli altri moriranno nei prossimi anni. Niente di eccezionale, hanno più di 70 anni, è il normale corso della vita. Eppure queste cose è bene non dimenticarle.
E assieme a queste, è bene non dimenticare che tutto ciò non è così distante da noi. Queste cose sono accadute, potrebbero accadere nuovamente e accadono tutt'oggi.
“I nostri lager sono nel terzo mondo, lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, la nostra società ha assunto dal modello nazista parecchie cose. La società occidentale moderna ha bisogno di qualcuno che paghi le conseguenze dei pochi che ne beneficiano. Questi pochi hanno perso ogni consistenza, sono lontani, fugaci ed irreali per noi. Eppure esistono e senza di essi la nostra società collasserebbe.
È bene non dimenticarlo, è bene non dimenticare.

lunedì 10 novembre 2008

Leopardi, inguaribile ottimista

Ne approfitto per pubblicare una piccola analisi che mi è venuta in mente, studiando leopardi a scuola. Buona lettura! XD


Leopardi, figlio e autore di infinito, di poesia, di filosofia, autore di un pensiero unico quanto emblematico, misterioso, incerto e assoluto. Il suo pensiero si snoda attraverso varie tappe, si evolve, ma di queste poche rimangono ben impresse nella nostra mente, nel ricordo che quasi tutti abbiamo di lui. Il sognatore, rivolto all'infinito, ma piegato verso un triste e infelice mondo che lo opprime, una natura matrigna verso gli uomini, un insieme di inconsistenti e vane illusioni. E, dietro e davanti a tutto questo, il buio, il pessimismo, prima solo storico poi cosmico, che avvolge tutto il mondo, suo e dell'umanità intera. "Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male" (Zib., 4174). In questo dunque si esaurisce la natura di Leopardi? A voler ascoltare solo le sue fredde parole di filosofo, si. Eppure, forse, la sua personalità e natura non si riduce solo a questo. Egli stesso si definiva “poeta” oltre che filosofo.

Il Leopardi filosofo è forse il più noto, quello di cui più si dibatte e quello meglio studiato a scuola; ma, soprattutto, quello di cui abbiamo più scritti, quello che più voleva esternare il suo pensiero e consegnarlo alla analisi sua e dei lettori. Con la sua conversione “dal bello al vero”, avvenuta ad appena vent'anni, abbandona le illusioni giovanili per approdare ad una nuova visione della realtà: essa viene vista con occhio freddamente filosofico, materialista e sensista. Col passare degli anni questa visione andrà ad oscurare e svalutare sempre più il valore delle illusioni, che prima pensava potessero portare gli uomini a vivere un piccolo attimo di eternità, ad illuderli che si potesse raggiungere la vera felicità, relegandole al ruolo di vane ed infantili immagini portatrici solo di un inesaudito bisogno. La sua teoria del piacere ci spiega come per l'uomo sia impossibile raggiungere il piacere, la vera felicità: l'uomo tende per natura ad un piacere infinito e la particolarità del mondo reale fa sì che niente possa, per qualità e quantità, soddisfare questo bisogno dell'uomo, che tenderà per tutta la vita a questo irraggiungibile piacere. E l'assenza di questo lo porterà, necessariamente, a vedere dappertutto il male.
Leopardi non è, tuttavia, solo questo. Al Leopardi filosofo si oppone il Leopardi poeta. “All'uomo sensibile e immaginoso […] che viva sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi” (Zib., 4418). Natura doppia degli oggetti, natura doppia di colui che li osserva. Al materialismo si oppone la riflessione, l'immaginazione. Alla visione delle realtà, Leopardi si ripiega in sé stesso e riflette, immagina, spalanca il cuore e guarda oltre “Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo” (“L'Infinito”, Piccoli idilli). Non è dunque solo materialismo, questo infinito è qualcosa che va oltre la realtà, oltre la materia, oltre i sensi, e questo è ciò a cui si rivolge, ciò che raggiunge, ciò in cui “naufraga dolcemente”. Il poeta è vago, abbandona la sofisticata, fulgida e chiara critica filosofica per sconfinare in una metafisica incerta e indescrivibile, ma quantomai tangibile, chiara, accecante, avvolgente.
Entrambe queste facce si riuniscono, descrivono ma non esauriscono il Leopardi Uomo. L'uomo in questione è ciò che sta dietro alla filosofia e alla poesia, ma allo stesso tempo ciò che va oltre, ed è colui che non ci ha lasciato nulla di scritto, né critiche filosofiche, né poesie, colui che si limitava a vivere, o, ancor meglio, non si limitava a scrivere o a “pensare alla vita”, ma si apriva al valore della stessa. Seguendo il percorso di vita che lui stesso ci ha indicato, passa da una fase giovanile, fatta di illusioni, felicità e bellezza, ad una filosofica, dove si evolverà in un pessimismo sempre più cosmico e tremendo. Da qui però emerge un Leopardi che non è ancora rassegnato totalmente: il Poeta. La poesia è il mezzo per evadere dalla sterile analisi filosofica che lo porta a vedere il male. La poesia permette di riflettere, di rivolgere a sé stessi le domande, di sconfinare dall'ambito della “piccola” ragione per andare oltre. “Trista quella vita che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione” (Zib. 4418, anno 1828). Dopo aver ripudiato le illusioni, dopo aver deciso che non deve illudersi, deve rivolgersi al vero, lo fa: guarda la realtà e, a questa visione, incomincia il suo viaggio. Leopardi non solo filosofo, dunque, ma neanche solo poeta. L'uomo parte dalla fredda analisi filosofica, per poi sentire il “bisogno” di infinito, immaginarlo a partire dalla visione della realtà, fino a coglierlo, a viverlo, “e mi sovvien l'eterno”. E qui sta il passo fondamentale: Leopardi abbandona la penna e “naufraga” in questa immensità. Abbandona la penna, vista l'ineffabilità dell'eterno. Ormai non ha più importanza descrivere tutto ciò. Nella prima fase, quella filosofica, Leopardi non si staccava dalla penna ed esternava tutte le sue idee, tutte le sue critiche. Nella fase poetica egli è vago, assai loquace. Nell'ultima fase è muto, sta vivendo l'eterno, non ha più importanza parlare, non ha più bisogno di sfogarsi, è avvolto nel suo infinito, è felice...
Può parere anacronistico quanto detto, soprattutto in riferimento a “L'Infinito”, scritto nel 1819, durante la sua prima conversione filosofica, quindi prima del suo pessimismo cosmico, quando ancora egli si illudeva beatamente, giovane sognatore, aspirante e desideroso di bellezza.
Non solo: molte poesie e brani vari del Leopardi degli anni '20 fanno continuo riferimento a questa sua indole, al suo negativismo imperante. “Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male[...]” è una frase del 1826, nel pieno della sua fase pessimista. Un poeta “filosofico” è quello di questi anni, rassegnato, pessimista, negativo: “O natura, o natura, / perché non rendi quel che prometti allor? Perché di tanto / inganni i figli tuoi?” (“A Silvia, Grandi Idilli, 1828). Eppure tra i due c'è una grande differenza. La prima frase è un'affermazione (“Tutto è male”), il secondo testo è una domanda (“Perché?”). Sterile retorica? Assai probabile, però quest'uomo, pensatore, colto e ponderato, non lasciava nulla al caso. Che il poeta non fosse ancora del tutto sopito? “Considerare l'ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio, immaginarsi il numero dei mondi infinito e l'universo infinito e sentire che l'animo e il desiderio nostro sarebbe ancor più grande che sì fatto universo, pare a me maggior segno di grandezza e di nobiltà che si vegga nella natura umana” (Pensiero LXVIII, scritto tra il 1831 e il 1835). Lo scrittore esternava i suoi pensieri, l'uomo li viveva. E come ci indicano le sue stesse frasi, non era soddisfatto dalla realtà, cercava di rivolgersi a qualcosa di più grande, dal più grande valore. Questo è un processo ineffabile, davanti al quale Leopardi getta la penna, ammutolisce e, semplicemente, vive.
Tutti noi viviamo ampi periodi di tristezza e sconforto, e possiamo ben vedere come siano questi quelli in cui più ci è facile esternare le nostre sensazioni. La funzione della filosofia era questa: esternare il suo pessimismo. E possiamo anche ben dire come la nostra natura, la nostra personalità non si riducano a quei soli momenti di sconforto. La felicità trova piena realizzazione nella vita, nel suo essere vissuta, la tristezza da una astensione dalla vita, da un troppo pensare alla vita stessa, da un troppo uso della ragione “La natura è grande, la ragione è piccola” (Zibaldone, 14).La tensione alla felicità produceva in Leopardi la poesia, il sogno, l'immaginazione che nei suoi pensieri torna sempre, prepotentemente, figlia di un bisogno mai sopito. E, a questa tensione, segue una fugace e indescrivibile visione dell'eterno. L'immaginazione, il desiderio fanno da vero sfondo in lui, ancora dietro al pessimismo, che era solo una delle tante facce di Leopardi, solo la più prolifica, quella che ci ha lasciato più pensieri, i quali erano senza dubbio i più diretti, assoluti e convincenti. La poetica è vaga e di essa ci rimane molto meno.
Chiudendo gli occhi, solgo immaginarmi il Leopardi uomo così: con i piedi ancorati a terra, alla sua solida base filosofica e lo sguardo rivolto verso terra. Un uomo che si astiene dal vivere, dal cogliere il mistico e significato della vita, che sente il continuo e incessante bisogno di scrivere, di sfogare questo inesaudito bisogno che pulsa costante in lui. Però pian piano alza lo sguardo, vede il suo ermo colle e la sua siepe, ma non si ferma: la filosofia rimane a terra, ma la poesia si alza ed è il dito che indica il cielo sopra di lui, il suo infinito. Però non si ferma a questo dito, va oltre, l'uomo si alza in volo, ammutolisce il poeta e si gode il suo infinito, la sua eternità. Non è più né filosofo, né poeta, forse abbandona pure il suo essere semplice uomo, per divenire tutt'uno con il suo immenso e sterminato infinito.
L'uomo, colui che viveva il suo infinito, colui che immaginava, colui che coglieva l'eterno, era muto. Di lui non ci rimane nulla, se non quel dito (la poesia) che lo indica da lontano. Vogliamo ridurre l'essenza di un uomo solamente a ciò che ci ha detto? O provare a guardare non quel dito ma ciò che indica, abbandonare la superficialità e provare a cogliere ciò che lui stesso ci indicava, non solo per sé stesso, ma anche per noi.
Ciascuno vede nelle opere ciò che vuole, ciò che crede, vi rispecchia le sue idee. “Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso.” diceva, non a torto Proust.
Certo è che Leopardi,dietro al pessimismo,celava un desiderio mai sopito di infinito, di eterno, di felicità. Questo desiderio si realizzava nel suo essere uomo, non filosofo o poeta, ma, molto più semplicemente, piccolo uomo, nulla a confronto del tanto decantato e ammirato poeta, ma essere umano, felice, eterno nella sua vita, infinito nel suo valore, immenso nel suo pensiero.
Certo è che Leopardi, per me, era un inguaribile ottimista.

giovedì 6 novembre 2008

...

“Se Dio non esiste tutto è permesso”. (Fedor Dostoevski)

L'uomo ha una natura animale, bestiale. L'uomo è una bestia (“homo homini lupus”...), un mentecatto essere che ha come obiettivi quei pochi, istintivi ed innati, bisogni che la natura gli ha imposto. Come la sopravvivenza, la salvaguardia della prole, e poco altro. Tra questi è innegabile quanto NON rientri la vita sociale, la formazione di una comunità. Questa può essere tuttalpiù subordinata a quegli obiettivi, ma non è ciò a cui è finalizzato l'uomo e ciò per cui è stato creato, no.
L'uomo è estremamente egoista, le prove sono sotto gli occhi di tutti. La finalità di questa società, basata su un sistema monetario, è il profitto. E il profitto per l'uomo non è che un accrescimento delle sue comodità e dei suoi beni. Un elegante e grazioso contorno ai suoi istintivi bisogni. Anzi, forse questo è diventato il suo bisogno. Non che lo fosse per natura, però lo è diventato, corrotto com'è da questo sistema di cose. Vi torna? Secondo queste premesse ben si spiega la direzione intrapresa dal genere umano. L'uomo, lupo per gli altri uomini, pensa egoisticamente a sé e a sé soltanto, cerca di ingannare gli altri, li sfrutta mascherandosi dietro a false parole o ipocriti atteggiamenti, per il SUO bene. Non funzionano così anche molti dei tanto idolatrati rapporti amorosi? O vi illudete del contrario? Un ragazzo sta con una ragazza per soddisfare i suoi egoistici bisogni: una scopata ogni tanto, per sentirsi al centro della vita di qualcun altro (oh quanto non ci fa sentire importanti e indispensabili tutto ciò), per far star male una persona, per farla dipendere da sé, per sfogare i propri animaleschi istinti...continuo? Cambio argomento? Parliamo di carità: molte persone si sentono in colpa, inutili e rigettate dalla società, fare carità significa dare a sé stessi l'illusione di valere qualcosa in più di quello che in realtà si vale, significa fare in modo che quell'infimo “prossimo” debba dipendere da noi, significa porsi su di un piedistallo e mettersi al centro quando in realtà si vale ben poco e quelle azioni non si fanno per la volontà di fare bene ad altri ed aiutare, ma per il proprio egoistico tornaconto.
È questa la natura degli uomini?
Se Dio non esiste, si.

Perché io, CREDO, ho la ferma e incontrovertibile convinzione che la natura degli uomini non si esaurisca a questo. Sono pazzo probabilmente, parlo di cose che non esistono e di cui non posso e non potrò mai avere la prova. Eppure....questo eppure muove i neuroni di miliardi di persone dalla notte dei tempi, EPPURE....
Quello che accade ora è che quasi tutti ci stiamo dimenticando di questo eppure e ci abbandoniamo a questa roboante e trascinante comodità, questa soddisfazione del proprio ego, questo placido benessere materiale che ci è stato inculcato e per cui siamo disposti a morire.
L'uomo potrebbe essere solo un animale, una sordida bestia, un essere infame...eppure quando guardo un uomo vedo molto di più. Quando guardo là, fuori dalla finestra, vedo molto di più. Quando sorrido e sono felice non sento solo la soddisfazione di alcuni desideri, ma sento qualcosa di più. L'uomo ha un valore immenso, che non si può ridurre alla descrizione data da poche o molte parole, fossero anche un'infinità...la vita ha un valore immenso, tutto ciò che ci passa davanti ha un valore immenso che non si esaurisce nel freddo materialismo. Anche Leopardi, pessimista e materialista com'era, immaginava questo infinito, lo vedeva, lo sentiva, si lasciava trasportare da esso e in esso coglieva quel significato che va oltre, che lo fa naufragare dolcemente in un mare sterminato, fatto di immensità, di dolci e forti emozioni che trascendono la semplice felicità e tristezza, che lo avvolgono in un tutto, in un eterno e incessante....qui non posso che fermarmi, è ineffabile questo “eroico furore” plotiniano, questa estasi, questo nirvana....qualunque parola non può che distogliere l'attenzione dallo sterminato e inenarrabile valore della vita, della realtà, dell'essere, del tutto, di Dio.
Chiamatelo come volete, non è affatto un problema di nomi, neanche di sostanza, non è nemmeno un problema, forse non è neanche. Però il semplice fatto che possa non essere, che sia o non sia, che mi ponga queste domande e che queste se le siano poste prima di me milioni di persone...
che sia tutta un'illusione? Forse data dal fatto che non possiamo rassegnarci a credere di dover morire e scomparire nello stesso nulla da cui siamo venuti, lo stesso nulla che ci ha creato. Assai probabile però anche questo nulla...e se fosse lui? Se non lo fosse? Se fossi soltanto io? Se fosse tutta un'illusione? Non ha importanza, illusione o no, vita o morte, tutto o nulla. Non voglio risposte e non voglio dare risposte, non voglio nemmeno porre domande. Non è rassegnazione. È Fede? Forse si, forse no.
Non ha importanza.
Chi sono io per presumere di raccapezzarmi quando nessuno ci è riuscito prima di me?
No, voglio solo percorrere la mia strada.
E mentre lo faccio vivo, vivo quel pezzo di eternità che mi avvolge, quando chiudo gli occhi e quando li apro mi avvolge l'infinito, quando rido e quando sono triste il cuore, la vita si colma di sé stessa e ogni quesito perde importanza.
La vita può veramente essere eterna. Perché l'eternità non è data da tante ore accostate, una dietro l'altra. L'eternità è in ogni singolo attimo, si esaurisce e rinasce, l'eternità è la Vita, è l'amore, è. L'eternità è ciò che si vede quando si aprono gli occhi, quando si abbandonano tutte le cose che non hanno valore, quando si smette di guardare il menu e si decide finalmente di pranzare a questo fantastico banchetto.

Culla di infinito,
alba dell'eterno
suono celestiale
non qui, non là,
ma ovunque è gioia
se quel briciolo di vita
si schiude, brilla
e tutto è luce, lo è sempre stato,
ma ad occhi chiusi
la luce non può penetrare.

E...se Dio non esiste, tutto è permesso.
Se Dio esiste, l'uomo è nulla.
Se tutto questo non ha importanza, se al centro non è l'uomo o Dio, se un maestoso turbine avvolge me, Dio, tutto e niente allora questa eterna danza acquista un senso, un valore, questo infinito è e non è, possiamo farne parte e non farne parte, ma tutto ciò non si fermerà e qui potremo danzare, gioire, piangere, con la consapevolezza dell'infinità che ci avvolge, di noi stessi, dell'immensità che è dentro di noi, del valore che abbiamo e che tutto ha.

E allora posso sperare, posso vivere, posso essere felice, posso credere che l'uomo non esaurisca sé stesso nell'essere bestia, sia uomo, voglia una sua Kirghisia, aspiri a specchiarsi nella gioia degli altri, a volersi esprimere per ciò che è.
E non ha importanza se posso o meno, perché non deve esserci una ragione: ogni motivo, ogni ragione, ogni importanza cade e perde rilievo, acquistando però quest'ineffabile, nuovo valore che colma ogni cosa, sovrasta tutto e con un semplice battito di cuore o con un delicato sorriso può farti vivere l'eternità.

Apri il cuore
balla, ama, ridi, piangi, vivi, muori,
fatti trascinare nel maestoso vortice
che è vita e morte
uomo e dio
felicità e tristezza
tutto e nulla.
Abbandonati nella più grande consapevolezza
che è quella di conoscere e amare
l'infinito, l'eterno che è dentro e intorno a te.

lunedì 3 novembre 2008

oddio cosa vado cianciando...

“Homo homini lupus” diceva Thomas Hobbes, parecchi anni or sono.
L'uomo è un lupo per gli altri uomini? Apriamo gli occhi alla realtà.
Ovunque guerra, egoismo, interessi, fame, dolore, emarginazione, inconsapevolezza, infelicità.

“Il vero schiavo non è tanto colui che ha la catena al piede, quanto colui che non è più capace di immaginarsi la libertà” (Silvano Agosti).

Viviamo in una società, un sistema che si basa su di un equilibrio che vede 10 persone, pasciute e ben vestite, su un piatto e altre 1000, misere e patite, sull'altro. E la bilancia è ferma, immobile.
L'uomo deriva dalle bestie, è un lupo, e ne ha ereditato tutti i caratteri più bestiali. E, avvalendosi dell'unica arma in più che la natura gli ha fornito, l'astuzia, cerca di soggiogare, dominare gli altri, cerca di sopravvivere loro. Non funzionano così le cose? Ancora una volta, apriamo gli occhi.
Sembra vano sperare che qualcosa possa risollevarsi, milioni di persone ci hanno preceduto senza riuscirci, e questo è quello che ci rimane. Certo siamo più comodi, ma il valore della vita dov'è? Non parlo di mera esistenza, di sopravvivenza, di presunto benessere, parlo di vita umana. Quante persone ci sono là fuori? Non etichette, non studenti/operai/impiegati/scrittori/poeti, parlo di UOMINI. Un singolo uomo vale molto più di tutte queste etichette messe assieme. Eppure vogliamo sempre più ridurci a queste, diventiamo esse, perdiamo la nostra identità e siamo disposti a morire pur di non perdere questa identificazione.
No, l'uomo vale molto di più. 
Ma se ho appena detto che siamo tutti bestie?
Lo siamo e non lo siamo...quando guardo fuori vedo desolazione, vuoto...eppure...oggi ho visto un sorriso, che mi ha fatto dimenticare tutto ciò. Ho visto il sorriso di un bambino, una briciola di eternità che in un attimo mi ha riempito il cuore e ha colorato il grigio che aleggiava, che riempiva l'atmosfera. E, forse, vale ancora la pena lottare, vivere. Vale ancora la pena cercare di lasciare il mondo un po' migliore di come ce l'hanno lasciato. Forse è andare controcorrente, ma occorre andarne fieri.
Non sarà mai sufficiente quello che ci proponiamo di fare, saremo sempre contro questa corrente, così forte e travolgente, ogni singolo gesto sarà annullato dalla totalità che spinge in direzione opposta. È inutile cercare di cambiare il mondo.
Però...uscendo di casa voglio sorridere alle persone che incontro. E voglio sperare che quel sorriso significhi qualcosa per loro, e per me. E magari queste persone, il giorno dopo, vedendomi, mi sorrideranno indietro e, spinte da chissà quale istinto, sorrideranno a qualcun altro. Così, senza motivo. E questa luce si sprigionerà e coinvolgerà una persona, e un'altra...mi fermo qua, cambiare il mondo è impossibile.
Però domani, uscendo di casa, voglio sorridere, a me stesso e agli altri.

domenica 2 novembre 2008

Intervista a Cossiga

probabilmente già nota a molti di voi, la riporto anche qua, per renderci un po' più consapevoli di cosa pensano di noi coloro che stanno lassù

da "GIORNO/RESTO/NAZIONE", giovedì 23 ottobre 2008
INTERVISTA A COSSIGA «Bisogna fermarli, anche il terrorismo partì dagli atenei»
di ANDREA CANGINI

- ROMA. PRESIDENTE Cossiga, pensa che minacciando l`uso della forza pubblica contro gli studenti Berlusconi abbia esagerato? 
«Dipende, se ritiene d`essere il presidente del Consiglio di uno Stato forte, no, ha fatto benissimo. Ma poiché l`Italia è uno Stato debole, e all`opposizione non c`è il granitico Pci ma l`evanescente Pd, temo che alle parole non seguiranno i fatti e che quindi Berlusconi farà una figuraccia».
Quali fatti dovrebbero seguire?
«Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand`ero ministro dell`Interno».
Ossia? 
«In primo luogo, lasciare perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino rimanesse ucciso o gravemente ferito...».
Gli universitari, invece? 
«Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città».
Dopo di che? 
«Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri».
Nel senso che...
«Nel senso che le forze dell`ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano».
Anche i docenti?
«Soprattutto i docenti».
Presidente, il suo è un paradosso, no?
«Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì. Si rende conto della gravità di quello che sta succedendo? Ci sono insegnanti che in- dottrinano i bambini e li portano in piazza: un atteggiamento criminale!».
E lei si rende conto di quel che direbbero in Europa dopo una cura del genere? «In Italia torna il fascismo», direbbero.
«Balle, questa è la ricetta democratica: spegnere la fiamma prima che divampi l`incendio».
Quale incendio?
«Non esagero, credo davvero che il terrorismo tornerà a insanguinare le strade di questo Paese. E non vorrei che ci si dimenticasse che le Brigate rosse non sono nate nelle fabbriche ma nelle università. E che gli slogan che usavano li avevano usati prima di loro il Movimento studentesco e la sinistra sindacale».
E` dunque possibile che la storia si ripeta?
«Non è possibile, è probabile. Per questo dico: non dimentichiamo che le Br nacquero perché il fuoco non fu spento per tempo».
Il Pd di Veltroni è dalla parte dei manifestanti.
«Mah, guardi, francamente io Veltroni che va in piazza col rischio di prendersi le botte non ce lo vedo. Lo vedo meglio in un club esclusivo di Chicago ad applaudire Obama...».
Non andrà in piazza con un bastone, certo, ma politicamente...
«Politicamente, sta facendo lo stesso errore che fece il Pci all`inizio della contestazione: fece da sponda al movimento illudendosi di controllarlo, ma quando, com`era logico, nel mirino finirono anche loro cambiarono radicalmente registro. La cosiddetta linea della fermezza applicata da Andreotti, da Zaccagnini e da me, era stato Berlinguer a volerla... Ma oggi c`è il Pd, un ectoplasma guidato da un ectoplasma. Ed è anche per questo che Berlusconi farebbe bene ad essere più prudente».
CONFRONTO 
«Ieri un Pci granitico oggi Pd ectoplasma Perciò Berlusconi dev`essere prudente» [.]

e la libertà di espressione e manifestazione vanno decisamente a farsi fottere.

"La libertà personale è inviolabile." (Art 13 della Costituzione)

"I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz'armi." (Art 17 della Costituzione)

"I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale." (Art 18 della Costituzione)

"Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione." (Art 21 della Costituzione)

Mi fermo qua, per pena e pietà, più che per mancanza di argomenti.